giovedì 29 novembre 2012

Più libri più liberi


Sabato 8 dicembre sarò a Roma a Più libri più liberi. Chi desidera chiacchierare con me sui temi dei libri: La solitudine delle madri e Reclusione di corpi e di menti (ma non solo eh! Anche di viaggi, di scarpe, di buon cibo, della pioggia, e di qualunque cosa  sia bello condividere) non dovrà fare altro che venire allo stand della Magi edizioni. Nel frattempo cerco anche di capire l’ubicazione dello stand all’interno della fiera e nei prossimi giorni scriverò indicazioni più precise. Vi aspetto!

mercoledì 21 novembre 2012

Introduzione del libro (quarta e ultima parte)

Distinguere, prediligere, selezionare, filtrare, optare, sono solo alcuni fra i sinonimi del verbo scegliere. E’ bene conoscerli e praticarli, nelle loro molteplici declinazioni, per la possibilità che ci danno di abitare il territorio della libertà.
Tuttavia, seppur la parola “reclusione” richiami in negativo una costrizione, non possiamo dimenticare quanto di buono possa invece contenere. Ci sono storie di eremitaggio, come quella di Marco Puchetti, che ha archiviato la laurea alla Bocconi e una carriera in azienda per chiudersi in un borgo abruzzese, vivendo secondo ritmi e bisogni più elementari. Ma, senza arrivare a scelte così estreme, possiamo accorgerci che per superare un periodo difficile o per far nascere cose nuove abbiamo bisogno di silenzio e di distanza. E un luogo protetto, chiuso, un luogo che abitiamo per nostro desiderio e non per volere altrui, può svolgere una funzione analoga a quella del liquido amniotico nel grembo materno: attutire gli urti e fornire nutrimento mentre la gestazione procede.

Bronnie Ware è un’infermiera australiana che assiste i malati terminali. Oltre ad alleviarne il dolore con i farmaci, li accompagna nel tratto finale della loro vita: quello dei bilanci autentici, quando fingere con sé stessi e gli altri è pressoché impossibile, e ciò che non è stato vissuto è marchiato dal fuoco dell’assenza. Ware ha raccolto numerose testimonianze ponendo sempre la stessa domanda: “C’è qualcosa che rimpiangi”? Poi, ha stilato una classifica e ha scritto il libro I cinque rimpianti più grandi di chi sta per morire. Fra questi c’è quello di aver lavorato troppo, di aver espresso poco i propri sentimenti, coltivato male le amicizie, e la felicità. Ma il rimpianto più grande è quello di non aver vissuto la vita in base alle proprie scelte, di essersi lasciati condizionare dalle aspettative altrui, chiudendosi in gabbie che la società considera inevitabili. Non aver osato dare una forma ai propri sogni. Andarsene senza esser prima diventati se stessi.


martedì 13 novembre 2012

Introduzione del libro (terza parte)

Ma la malattia in generale è un luogo chiuso: tutti, entrando in un ospedale, provano la sensazione di entrare in un mondo altro, circoscritto, di mutate priorità.
E quando noi o un nostro familiare attraversiamo una malattia, impariamo i limiti che porta con sé, tocchiamo con mano e impariamo centimetro per centimetro il territorio che abitiamo: uno spazio ristretto. Facciamo quindi i conti con movimenti ridotti o con aspettative di vita ridimensionate. Senza contare che non sono pochi coloro i quali, in nome di un approccio più consapevole alla malattia, si sono sentiti dire frasi il cui sottofondo più o meno recita: “Ti sei ammalato perché te lo sei voluto”. Dunque a un certo punto ci si può trovare a convivere non solo con una patologia ma con la colpa di averla provocata. Poiché, a proposito di parrocchie, nel campo della cura ne esistono molte il cui integralismo non ha nulla da invidiare alla più rigida delle religioni.
Così, il corpo ammalato talvolta significa corpo colpevole, da nascondere, da negare, come la morte, come la vecchiaia. Si preferisce coltivare l'inganno di un eterno presente, sano, potente, invincibile, negando la biologia, il tempo, illudendosi che se sposo in toto questa filosofia, questa cura, questo credo, non mi ammalo o se mi ammalo guarisco, comunque non muoio. Nego così il corpo reale, la vita vera, fatta di intoppi, di inciampi e patologie. Vale forse la pena di immaginare quanto terribile potrebbe essere la vita senza un finire, un punto di rottura, un limite. Ci sono cose che non si possono scegliere, accadono e basta, fanno parte dei giorni, delle cellule, del respiro, della carne. Dobbiamo imparare ad accettarle. Ci sono cose che si possono scegliere e su queste è nostro dovere  riflettere. Distinguendo tra l’abitare un luogo perché lo si desidera o perché così ci è stato detto di fare.
Andare altrove, che si tratti di un luogo fisico o di un luogo emotivo, non è cosa semplice: bisogna percorrere nuove strade e incontrare luoghi sconosciuti che in quanto tali possono risultare inquietanti. Ci vuole uno slancio, un’apertura, ed è necessaria una buona dose di fiducia quando tocca dare un taglio, allontanandosi da quel che è stato. Uno svincolo ostico. Uscire dalle prigioni interiori è arduo e richiede di solito un lungo cammino, ma è una strada obbligata se desideriamo che libertà non sia soltanto una bella parola. Quando usciamo dai confini abituali per confonderci con nuovi paesaggi, per un po' siamo sbilanciati, ci sentiamo persi. Eppure, nulla come spalancare nuove porte ci mette a contatto con orizzonti prima impensabili, trasformandoci.
(continua)

sabato 10 novembre 2012

Introduzione del libro (seconda parte)

A volte, proprio non è possibile. In carcere per esempio, dove la reclusione non è solo psicologica ma fisica, e il tempo e lo spazio subiscono radicali alterazioni; dove i vincoli sociali e le abitudini quotidiane vengono soppressi. Può inoltre succedere che la separazione dal resto del mondo continui anche dopo aver scontato il periodo di detenzione, non più su un piano fisico ma emotivo. Le difficoltà dovute al reinserimento sono inevitabili, e richiedono percorsi non certo agevoli.
Un altro recinto che può assumere connotazioni dolorose è quello della solitudine. Naturalmente non mi riferisco alla solitudine cercata: quel luogo dolce nel quale si sta piacevolmente in compagnia di se stessi, mettendo distanze dal ritmo incalzante del quotidiano; quel luogo nel quale si crea, si pensa, si diventa fecondi, ci si ricarica per una successiva apertura al mondo esterno. Mi riferisco alla solitudine subìta, che ha le caratteristiche della mancanza, dell'esclusione, che coincide con il vissuto sterile della depressione, ed è connotata da un senso di morte, di impotenza e di vuoto. La prima è un rifugio che favorisce la crescita interiore, la seconda è una gabbia che paralizza l'esistenza conducendo un senso di estraneità a se stessi e agli altri. Indubbiamente, come ha scritto D. H. Lawrence: “E' molto più facile forzare le sbarre di una prigione che aprire porte sconosciute sulla vita”.
Di recente una donna mi diceva che invece vorrebbe, eccome vorrebbe, uscire dalla casa in cui lavora come badante. Ma non può. Originaria della Romania, non ha altro luogo in cui vivere. Sta cercando un'altra occupazione. Per ora, una volta la settimana, a turno, i figli dell'anziana donna di cui si occupa, si recano nel cascinale distante chilometri dalla casa più prossima, portano viveri e medicinali, verificano che tutto sia a posto e se ne vanno. E questa donna rimane, giorno e notte, con una persona che da tempo ha perso le funzioni cognitive. La lava, la nutre, le parla, l'anziana però non risponde. L'assenza di un qualunque dialogo rinchiude entrambe in un vuoto, in questo caso percepito con disperazione solo da colei che cura.

venerdì 9 novembre 2012

Introduzione del libro (prima parte)

In questo periodo ho purtroppo poco tempo per scrivere sul blog. In attesa che quel tempo ritorni, pubblicherò una serie di post nei quali potrete leggere tutta l'introduzione di Reclusioni di corpi e di menti.


Anni fa, una donna mi pose la seguente domanda: “Quale parrocchia frequenta?”. Pensai che risposta darle, poiché intuivo che dietro la sua domanda c’era la curiosità di sapere se fossi credente e non quale fosse il mio luogo di culto prescelto. Non intendevo tuttavia darle spiegazioni sulle mie eventuali pratiche religiose. Risposi dunque: “Non frequento una sola parrocchia, ne frequento tante, in orari diversi”. Apparve delusa. Non mi aveva mai vista nella sua, di chiesa, ma chi poteva dire, a quel punto, se ero un'assidua partecipante a riti di altre parrocchie?
Il seme di questo libro è nato quel giorno, ma affonda le sue radici in un terreno personale che coltiva - da sempre - un'idiosincrasia profonda verso la consuetudine di collocare le persone all'interno di una gabbia stretta sulla quale incollare l'etichetta di un'appartenenza religiosa, culturale, politica, economica, professionale. Etichetta che non può fare altro che limitare e tradire la molteplicità e la ricchezza di ogni essere umano. Nelle gabbie, in qualunque gabbia, si sta stretti, si irrigidiscono le articolazioni e i pensieri, non esiste lo spazio per cose nuove, e il senso di soffocamento che ne deriva provoca inevitabile malessere. E' sufficiente riflettere un attimo sulla reclusione, per osservare un'infinità di situazioni, reali e interiori, che possono includere tale caratteristica.
Esistono aree specifiche di reclusione come i conventi, o i manicomi, prima della legge Basaglia che ne decretò la chiusura. Naturalmente se è impensabile che una donna scegliesse di andare in manicomio era ed è più probabile invece la scelta di entrare in convento. Anche se è corposo il numero di donne che vi ha trascorso la vita desiderando essere altrove. Esistono inoltre alcune aree nelle quali la reclusione non ha a che fare con un luogo fisico bensì si colloca nelle emozioni o nei pensieri: per esempio il corpo, il trascorrere degli anni, la maternità. In ciascuna di queste aree, aspirazioni di perenne giovinezza o negazioni delle difficoltà, si definiscono criteri standard, ai quali ognuno di noi dovrebbe adeguarsi. E' evidente quanto tutto ciò possa rendere complicato il vivere quotidiano di chi non riesce a recidere sbarre che limitano la libertà. Quotidiano che diventa un inferno se ci inoltriamo nelle aree della tossicodipendenza, della violenza, e facciamo i conti con la difficoltà di uscirne. Non a caso, troviamo spesso il verbo uscire in frasi quali: uscire dalla spirale della droga, uscire dal buio della violenza. Uscire dunque, andarsene, scappare, fuggire da un luogo chiuso che crea dolore.


(continua)