mercoledì 26 giugno 2013

Storia di Giuliana - quarta parte



I numeri che si raggiungono sommando i dati che riguardano la violenza femminile sia in Italia che all’estero sono raccapriccianti, e sempre approssimativi perché il silenzio è ingombrante. Rekha Khalindi, indiana di dodici anni, ha osato sfidare la tradizione delle spose bambine. Aberrazione frequente quella del matrimonio tra una bambina e un uomo avanti negli anni, favorita dal fatto che in India più è bassa l’età della sposa, minore è l’entità della dote da offrire alla famiglia dello sposo. La discrepanza di età fa sì che siano numerose le vedove adolescenti. Nel 2001, un censimento ne registrava in India 34 milioni, di cui, circa un terzo,  vivevano rinchiuse in edifici nei quali l’accesso agli uomini proibito.
 Un orrore che aveva denunciato la regista Deepa Mehta nel film Water (2005). La protagonista, Chuyia, una bambina di otto anni, quando muore l’uomo a cui era stata promessa, viene accompagnata dai genitori nella Casa delle vedove. Il film è ambientato nel 1938, ma racconta una storia ancora possibile ai giorni nostri. La protagonista simbolizza il destino che riguarda, secondo Amnesty International, ottanta milioni di preadolescenti costrette al matrimonio. La realizzazione del film venne bloccata perché i fondamentalisti indù avevano minacciato di morte sia la regista che le attrici. Fu poi terminato nello Sri Lanka: la denuncia delle mortificazioni di quell’umanità silenziosa e la messa in discussione di un fanatismo religioso che in quelle privazioni e mortificazioni prospera, aveva creato un intreccio ritenuto pericoloso.
La libertà di espressione, di parola, di denuncia è gravida di ostacoli ovunque. Basta pensare a cosa può accadere in Italia quando una donna decide di denunciare il suo stupratore. Franca Rame, che ha vissuto la devastante esperienza, ha scritto un monologo sullo stupro nel quale poliziotti, giudici e avvocati della parte avversa, violentano con le parole, una volta ancora – la vittima. Era il 1970, ma quell’orrore non possiamo ancora considerarlo archiviato. Figuriamoci cosa può accadere all’interno di culture nelle quali la donna è considerata alla stregua di un oggetto. Alla mercé di un uomo che decide se e quando e come può uscire di casa, con chi può parlare e cosa può pensare. 
Sara, coordinatrice di una struttura di accoglienza che ospita madri con minori, gestita dall'Associazione Mondo Donna di Bologna, mi racconta la storia di Farida nata in un piccolo paese del  Pakistan. All’età di vent’anni viene data in moglie a un uomo il quale, appena celebrato il matrimonio, si trasferisce in Italia lasciandola in una nuova  casa, lontana dal suo paese natale, con suoceri e cognati.
Amir, il marito, torna in Pakistan ogni sei mesi e dopo due anni comincia a maltrattare la moglie a causa delle lamentele dei familiari in merito alla cucina e alle pulizie non soddisfacenti e perché, cosa grave, Farida non è ancora  rimasta incinta. I rapporti sono molto tesi e tra le famiglie d’origine aleggiano malumori. Per tradizione, se una moglie non dà alla luce un figlio può essere ripudiata e allontanata dal tetto coniugale, permettendo così al marito di risposarsi. Al terzo anno di matrimonio Farida rimane incinta, ma è solo alla nascita del secondo figlio, che Amir comincia ad avviare le pratiche di ricongiungimento per far venire la famiglia in Italia.  In seguito, arriveranno anche due fratelli di Amir.  Farida deve occuparsi delle faccende domestiche, servire gli uomini, prendersi cura dei  figli. Non può uscire per fare la spesa, né parlare con estranei: lo spazio nel quale può transitare è quello circoscritto all’appezzamento di terreno comprato dal  marito. Tre anni dopo l’arrivo in Italia, non conosce una sola parola della nostra lingua e la famiglia vive in una casa dove il tempo e lo spazio sembrano sospesi in un non-luogo, un limbo tra il paese d’origine e quello d’arrivo. Le botte sono la modalità con la quale Amir - spalleggiato e sostenuto dai fratelli - “educa” la moglie  e i bambini. La prima volta in cui Farida esasperata, prova a ribellarsi, lui la colpisce con un bastone provocandole profonde ferite. E’ l’autista del pullman che accompagna i figli a scuola a notare lo stato della donna e, dopo la sua denuncia ai servizi sociali, lei e i bambini verranno condotti in strutture protette.
Quel che emerge da questa vicenda è che la condizione di isolamento vissuta in un paesino sperduto del Pakistan si può riprodurre ovunque. Isolamento che in un contesto culturale nel quale la donna è considerata non un soggetto, ma oggetto asservito alla legge del padre prima, e del marito poi, favorisce l’insorgere di atti di violenza. Tra le donne che vengono prese in carico, insieme ai loro figli, dai servizi sociali, c’è chi coglie questa opportunità imparando un lavoro, intrecciando una rete di relazioni che le aiuta ad avviare un percorso verso l’autonomia. Mentre altre, conclude Sara, «non è infrequente che decidano di tornare con l’uomo che le picchiava, come se la violenza e le prevaricazioni subìte in una vita che ha le sembianze di una schiavitù, fossero comunque meno spaventose che stringere le redini di una vita libera».
(continua)

giovedì 20 giugno 2013

Storia di Giuliana - terza parte



Intanto, le notizie che dai media giungono su questo tema sono tutt’altro che rassicuranti. In Libano, il Parlamento si propone (gennaio 2012), attraverso la modifica di un disegno di legge, di negare alla donna la protezione dalla violenza domestica. Sono stati depennati dalla bozza lo stupro coniugale e la violenza verbale ed economica. In Arabia Saudita, paese nel quale una donna non trova un taxi su cui salire a meno che non sia accompagnata dal padre, marito o fratello, Manal - al - Sherif è stata in prigione per una decina di giorni per aver violato il divieto di guida. Sull’onda di questo caso, numerose donne saudite, per protesta e solidarietà, hanno guidato da sole, rendendo poi pubblico il gesto attraverso un video sul web. Sono i primi segnali di una ribellione che avrà bisogno di un lungo tempo prima che i suoi effetti siano conclamati. Infatti, è dello stesso periodo la notizia che Shayma Jastaniah, fermata alla guida della sua auto a Jeddah, nonostante il possesso di una patente internazionale, sia stata condannata a subire dieci frustate.
E’ venuta in Italia, nel gennaio 2012, Rachida Manjoo, giurista sudafricana e relatrice indipendente incaricata dal Consiglio dei Diritti Umani delle Nazioni Unite, per esaminare come viene affrontato il problema della violenza. Riferendosi a quella domestica sottolinea che «è doverosa una sensibilizzazione forte perché questa violenza non viene ancora percepita come un reato o un danno, e viene troppe volte considerata normale all’interno della famiglia», e aggiunge: «se nella società e nei media la donna viene rappresentata in maniera riduttiva e viene considerata esclusivamente come oggetto sessuale o come madre, si crea un terreno fertile per discriminazione e violenza di genere».
«Quel mattino i bambini erano turbolenti: nessuna attività catturava il loro interesse, nessun gioco li teneva quieti. Dal canto mio, avrei desiderato solo dormire. Non era puramente stanchezza, era il torpore di chi ha smarrito la speranza, la rassegnazione di chi non immagina un altro modo di vivere. Peggio: di chi pensa che non può meritarsi di meglio. Presi il cellulare per telefonare a mia madre: sapeva delle nostre crisi, ma non conosceva la verità. Avrei voluto solo chiacchierare un po’. Non avevo più credito: da alcuni giorni avevo chiesto a mio marito di ricaricarlo, ma “si dimenticava” sempre. Mi osservai dall’esterno: ero una giovane donna, con un futuro da vivere, segregata in casa.
Non so poi se abbia inciso anche il fatto che la sera prima avevo visto un film che amavo molto: Qualcuno volò sul nido del cuculo (i film non rientravano in alcun divieto, purché si vedessero in casa). Quel mattino avevo impressa l’immagine di Bromden, uno dei protagonisti, il Capo indiano che si finge sordomuto. Nella parte finale del film, lui e l’altro protagonista - Jack Nicholson -  decidono di fuggire dalla clinica psichiatrica. Bromden solleva un lavandino di marmo, è pesantissimo, lo deve scardinare dal pavimento. Un lungo primo piano sul suo volto riprende la fatica che compie nel sollevarlo, poi - con una determinazione coltivata durante la lunga permanenza nell’ospedale psichiatrico - lo lancia contro una porta-finestra, e fugge.
Probabilmente fu una casualità, di fatto realizzai in quel momento che abitavamo al primo piano. Scavalcai il balcone, suonai il campanello dei vicini di casa - furono gentili, mi permisero di telefonare a mia madre. Non le diedi molte spiegazioni, le domandai se sarebbe stata disposta a pagare il costo di un lungo tragitto in  taxi. Rientrai dal balcone, preparai le valigie con l’essenziale, non persi tempo a guardarmi intorno. Scavalcai di nuovo: con i bambini fu più complesso ma pensarono fosse un nuovo gioco. No, non si trattava di un gioco, ma qualcosa di nuovo era».
(continua)

martedì 11 giugno 2013

Storia di Giuliana - seconda parte



«Il punto è che non mi fidai abbastanza di me stessa, e in tutta sincerità, devo dire che i segnali veri giunsero dopo il matrimonio» continua Giuliana. «La gelosia patologica, il tentativo di farmi smettere di lavorare - l’unico tranello nel quale non ero caduta - la capacità di crearmi il vuoto intorno, una facciata perfetta, e in casa, insulti, minacce continue. Poi, il controllo totale del denaro e delle telefonate. Ma non voglio elencare le solite miserie, sono appunto solite e comunque si diversifichino hanno in comune il fatto di mantenere un clima di paura che paralizza. Dopo, è nato un figlio - sì, lo so cosa stai pensando - anch’io oggi mi domando come potevo tollerare il sesso con un uomo simile. Eppure l’inizio era stato piacevole, poi per lungo tempo ho sperato che desiderio e tenerezza riemergessero dai pozzi nei quali si erano inabissati. Speranza vana. Vigeva il solito meccanismo: una parola mal detta, e via con urla, minacce e insulti che si acquietavano a letto. Era l’unico modo che conosceva per avvicinarsi a me. Il bambino aveva due anni quando sono giunta al punto di rottura. Una notte ho radunato uno a uno i miei pezzi sparsi, mi sono vestita e sono uscita di casa. Guidavo piano per le strade del paese. Era inverno, al posto degli alberi fantasmi congelati, il buio appena schiarito da una neve vischiosa. Ho vagato per ore, senza pensare, senza una meta, un progetto, un’idea che dessero un seguito a quella fuga. A casa c’era il bambino che dormiva. Non avevo la forza di andarmene con lui, né senza di lui. Mi hanno trovata al mattino, nella piazzola a fianco del cimitero, la testa appoggiata al volante della macchina».

Dopo questo episodio Giuliana chiede la separazione, ma quando il giudice chiede alla coppia se vogliono riprovare a stare insieme, non riesce a dire di no. Dalla fuga nella notte a quel mattino in tribunale, sono trascorsi mesi. Tempo durante il quale il marito di Giuliana si è riposizionato all’interno di parametri relazionali che non superano mai il limite oltre il quale lei non regge più. Anche i cani, tenuti a un guinzaglio troppo corto, guaiscono e si divincolano, è allentando un po’ la corda che si placa la loro ribellione. Nel frattempo a Giuliana succede ciò che è consueto: si sente in colpa per volere la separazione, ma specialmente per “non essere riuscita a cambiarlo”. E’ convinta, e anche questo non costituisce eccezione, che tocca a una donna trovare il modo di “tenersi un uomo”, e che se lui ha reazioni malate è certamente per qualcosa di sbagliato che lei ha detto o fatto. In questo contesto nasce il secondo figlio, ed è per questa nuova gravidanza che il marito rispolvera gli argomenti utili affinché Giuliana si licenzi. Primo fra tutti: una buona madre sta a casa a seguire i propri figli. Intanto, propone un trasferimento in un’altra regione.

«Con la nascita del secondo figlio, la violenza (ma io al tempo la definivo pressione psicologica) aumentò. Gli proposero un lavoro in un’altra regione e mi chiese di seguirlo. Oggi so che un abbozzo di ribellione definitiva cominciava a palesarsi, ciò che pensai allora fu che potevo approfittare del congedo maternità per verificare ciò che lui sosteneva essere vero: la sua rabbia era dovuta al fatto che io, lavorando, non mi occupavo abbastanza di lui e dei figli. Se noi ci fossimo rinchiusi nel cerchio sacro della famiglia, tutti gli insulti, i litigi, non avrebbero avuto motivo di esistere. Partimmo. Trascorsero tre mesi durante i quali io stavo in casa tutto il giorno con due bambini piccoli, senza familiari o amici nei dintorni. Nessuna persona adulta con cui conversare. Lui ogni mattina andava al lavoro chiudendo a chiave la porta dietro di sé. Ci sigillava dentro. La spesa la faceva lui, così - diceva - non avevo bisogno di denaro».


I luoghi comuni che riguardano la violenza la descrivono riferita a ceti sociali disagiati, o come conseguenza di una difficile integrazione per gli immigrati, oppure espressione di patologie psichiatriche. Si tratta invece di un fenomeno trasversale a strati sociali e culturali, a età e religioni. I fattori che rallentano o impediscono la rottura di un legame malato sono la paura, la dipendenza economica, la vergogna, il timore di non essere creduta, la colpa, la speranza di cambiare il partner. Infine, l’isolamento, dentro il quale tutti gli altri fattori prosperano. 
(continua)

martedì 4 giugno 2013

Storia di Giuliana - prima parte



«Tranne tirarmi qualche oggetto, mio marito non ha mai usato violenza fisica su di me; non so se sia stato questo a rendermi più complicato l’addio. Il fatto che non portassi addosso segni visibili, mi ha confuso a lungo sull’entità del danno che subivo. E ha indubbiamente inciso sul tempo impiegato a separarmi».  Sono le prime parole pronunciate da Giuliana. L’incontro avviene nella sua casa, e scegliamo la cucina come luogo del dialogo: ci sembra  propizia per parole difficili. Le stanze e la padrona di casa si somigliano: sono entrambe salde, ordinate, con la giusta traccia di colore. Eva,  il cane meticcio, poco tempo dopo il mio arrivo, si disinteressa di noi, e si accuccia nella sua tana.
«16 Maggio 1987: il giorno del mio matrimonio era arrivato. Negli anni precedenti più volte avevo lasciato l’uomo che stava per diventare mio marito, ma poco dopo tornavamo insieme. Sembravano solo i classici litigi da fidanzati, non ho mai dato loro troppo importanza, infatti non ci impedirono di giungere - quel mattino - a poche ore dal rito. Furono le parole che pronunciò mia madre a scuotermi un po’ dal torpore in cui ero rinchiusa: “Se non sei convinta non devi sposarti, pensaci, sei ancora in tempo”.
Quando ero bambina mi piaceva camminare sulle pietre che costeggiavano il greto del fiume. Giocavo balzando da una all’altra, poi però - quando mi avvicinavo all’acqua - le pietre diventavano scivolose e il mio equilibrio precario. Mia madre parlava e io pensavo che a un certo punto ero entrata nel flusso dei preparativi del matrimonio, una corrente con una direzione precisa, e ogniqualvolta avevo anche solo immaginato di fermarla, i miei piedi non riuscivano a fare presa. Come su quelle pietre.
Ripensai più volte a quel mattino, negli anni successivi. Il bivio della mia vita. Come sarebbe andata se avessi avuto la forza per dire no? E, soprattutto, dove se ne stava nascosta la mia ben nota capacità di ribellarmi quando ero alle prese con qualcosa che non mi convinceva completamente?».
Giuliana, a distanza di tanti anni, è ancora incredula sulla passività che in quel periodo della sua vita aveva preso il sopravvento. Sottolinea che le sarebbe più semplice comprendere se quell’accettazione indolente fosse stata una sua caratteristica da sempre. La memoria la riporta invece a situazioni nelle quali - seppur molto giovane - era in grado di svincolarsi celermente da eventuali costrizioni. Poi - come se d’improvviso avesse smarrito la capacità di  valutare ciò che desiderava - era entrata in quella situazione, ben nota a noi donne, di non fidarci di ciò che sentiamo. Quante volte non siamo in grado di spiegare razionalmente una scelta, ma di fatto ci ha guidato una sensazione, un odore, un’emozione, un’intuizione? Bussole la cui precisione talvolta ci sconcerta, eppure non sempre diamo loro l’importanza che dovremmo. Ci sono periodi della vita nei quali il rischio che corriamo è più elevato. In genere succede quando intorno a noi comincia a risuonare l’eco del “E’ tempo”. E’ tempo di sposarsi, di concepire un figlio, di essere madre a tempo pieno, di lavorare fuori casa, di….
Talvolta non riusciamo a distinguere se quel tempo è legato a una “richiesta sociale” o se è proprio quello giusto per noi. Se vogliamo davvero quel figlio, quel matrimonio, quel lavoro, quella casa.
(continua)