sabato 31 agosto 2013

Il dolore del corpo



          Venera Nera (2010) è un film del regista Abdellatif Kechiche: un pugno nello stomaco che richiede lungo tempo per essere smaltito. Narra la storia di Saartjie Baartman (1789 - 1815), nata in un villaggio della valle del Gambia, divenuta schiava di una famiglia di Città del Capo. Portata in Inghilterra, esibita come un fenomeno da baraccone in infimi spettacoli, compariva chiusa in una gabbia, o tenuta a un collare che il suo “padrone” metteva e toglieva secondo il grado di timore che voleva suscitare tra il pubblico per la presunta pericolosità della donna, soprannominata la Venere ottentotta. La storia si snoda lungo un percorso infernale nel quale il suo corpo viene esposto a un pubblico invitato a palpeggiare la consistenza della sua carne e a sfidarne la presunta “selvaticità”.
Il film gioca molto sui primi piani del suo volto ed è sconvolgente il dolore che si legge nel pozzo dei suoi occhi, a cui fanno da contraltare le risate sguaiate degli spettatori. La solitudine cresce di pari passo con la rabbia, ma quest’ultima è priva di quella forza che sarebbe utile a Saartjie Baartman: è una rabbia impotente. Infatti, quando un’associazione umanitaria denuncia il suo caso, nel corso del processo che ha lo scopo di stabilire se la donna sia una vittima o una simulatrice consenziente, Saaertjie confermerà la versione dell’uomo che la tiene schiava.

La lunga esperienza di sottomissione ha già irreparabilmente intaccato la sua volontà, e quell’unica ciambella a cui avrebbe potuto aggrapparsi si è allontanata per sempre. Dopo gli spettacoli, arriva il tempo dei bordelli, quindi della malattia (la tisi o la sifilide, non si sa) che la condurranno, a soli venticinque anni, alla morte.

Mentre sullo schermo scorrevano le immagini del processo speravo di assistere alla sua ribellione: una speranza delusa quando Saartjie testimonia in favore del suo aguzzino. Sulla faccia, la stessa espressione di quelle donne che, arrivate peste in qualunque pronto soccorso, raccontano di essere cadute dalle scale.

           Verso la fine della storia, c’è un passaggio nel quale la donna dovrebbe essere osservata dai naturalisti francesi, perché la forma delle sue natiche e delle sue labbra vaginali costituiscono interesse per uno studio che dovrebbe dimostrare l’inferiorità biologica di alcune razze umane. Per questo gli scienziati hanno pagato un’ingente somma al suo “padrone”. C’è lei, dunque, contornata da uomini che la osservano come un reperto inanimato. Inizialmente ha le sembianze di un fantoccio: l’abitudine a restare chiusa in una gabbia è oramai consolidata. Ma qualcosa succede all’improvviso: uno sguardo, una postura, un gesto che le donano una vitalità impensata. E quando le chiedono di togliersi l’ultimo lembo di stoffa che le copre i genitali, Saartjie rifiuta, e fugge.

A quel punto del film ho pensato che in tribunale non era riuscita a raccontare la verità, ma forse quel rifiuto avrebbe potuto finalmente imprimere un corso diverso alla sua storia. Non è andata così: il tentativo di opporsi a quell’ennesima umiliazione viene respinto con schiaffi e pugni di inusitata violenza. Annientata nella dignità, sopraffatta dal dolore, la protagonista si inabissa nell’alcool.

Una volta morta, il corpo verrà ricondotto nello stesso luogo in cui Saaertjie aveva pronunciato il suo unico no. E ancora una volta i naturalisti - tra i quali lo scienziato Georges Cuvier - possono abbandonarsi allo scempio: guardano, toccano, invadono, analizzano.

   Fu solo attraverso cause legali e una lunga campagna diplomatica condotta da Nelson Mandela che la Francia restituì la salma al Sudafrica. Il 6 maggio del 2002, due secoli dopo la sua nascita, le spoglie della donna tornarono nella valle del Gambia.



Saartjie Baartman chiusa in gabbia è una metafora dolorosa, potente e tragicamente attuale. Che dietro le sbarre ci sia il suo corpo per via della particolarità delle sue natiche o quello delle donne che Lea Melandri efficacemente chiama schiave radiose, poco cambia. Sempre di gabbia si tratta: sbarre dietro le quali il corpo della donna è umiliato, ridotto a oggetto di consumo e di scambio. Le stesse leggi che conducono a un uso sconsiderato della chirurgia estetica tale da rendere le persone assemblaggi di pezzi di ricambio, creature terrorizzate dall’eventualità sempre in agguato di una imminente rottamazione.