«Cerco
la verità nella mia vita: il midollo delle cose», le dissi. La monaca mi
rispose che se non l’avevo ancora trovata era perché non l’avevo cercata
davvero. Avevo pochi anni - ventisei - e tante domande, in quel monastero di
clausura nel quale ero entrata per accompagnare una mia amica. Nonostante il
mio forte anticlericalismo, avevo voluto essere presente nel giorno del suo
ingresso. Fu durante la partecipazione ai riti della Pasqua, osservando i gesti
solenni del sacerdote, carichi di tempo e di tradizione, che il pensiero di
avere vicino ciò che immaginavo lontano e irraggiungibile, mi fulminò. Netta, a
distanza di ventitre anni, è la sensazione di un muro che si spezza, di uno
schianto interiore, mentre appare il viso di Cristo, contornato di luce.
Quell’immagine, nemmeno nei momenti di crisi profonda, ho potuto negarla. Lì ho incontrato Colui che avevo a lungo
cercato. E lì è rimasto ed è tuttora presente nella mia vita. La notte seguente
quella giornata in convento era stata copiosa di lacrime che avevano spazzato
via il dolore dei mesi precedenti, durante i quali i miei passi erano risuonati
pesanti nel buio. Al risveglio sapevo che Cristo c’era, non mi serviva sapere
altro, volevo solo iniziare a conoscerlo. Nove mesi dopo, gettai alle ortiche
la vita precedente, ed entrai in monastero».
Ciò che racconta Irma ha a che fare con qualcosa
d’improvviso, impensato, che emerge accompagnato da immagini potenti. Quando un
cambiamento è così repentino sarebbe necessario un tempo di verifica prima di
crederlo definitivo. Le crisi sono spesso occasione di trasformazione e
apprendimento, tuttavia giungere a decisioni affrettate può essere rischioso. I
cocci con i quali ci si ritrova a fare i conti in un momento di rottura, richiedono
un tempo per assestarsi e prendere nuove forme. Bisognerebbe osservarli prima,
domandarsi da dove arrivano, perché, cosa significano, e solo in seguito con
parte di quegli stessi cocci si potranno costruire nuove strade, abitare nuove
forme.
«A distanza di anni posso dire che la
confusione fu mia e delle persone che in quel momento si assunsero (e io glielo
permisi) il ruolo di guida, e so che la risposta della monaca era errata:
ventisei anni sono una cifra ridicola per considerarsi in ritardo nell’aver
trovato qualcosa. Talvolta, non si è nemmeno iniziato a cercare. Purtroppo,
quella monaca, consapevole o meno, praticava le vie della manipolazione. Dal
canto mio, pensai fosse vocazione una ricerca che portavo in grembo da lungo
tempo: era una tensione invece, di certo non priva della tipica insoddisfazione
esistenziale della giovinezza. La confusione però era probabilmente solo mia,
poiché la reazione di tutte le persone a me vicine, si può sintetizzare con il
gesto di un mio amico. Dietro suo compenso, qualcuno disegnò un murales gigante
con il mio nome, e più sotto, in piccolo, defilate, nascoste, due sole parole:
Irma, perché? Un perché rimasto irrisolto per molti. Un murales che ha
resistito alle intemperie per quindici anni e che, con curiosa sincronicità, è
stato cancellato durante una ristrutturazione, un mese dopo la mia uscita dal
monastero».
La
zona cieca è il titolo di un romanzo di Chiara Gamberale nel
quale l’autrice fa riferimento a ciò che ciascuno ignora di sé mentre invece è
chiaro a chi ci sta vicino. Quell’area oscura, incompresa o inconsapevole. Solo
a noi, però. Quel “perché?” reso pubblico da un murales è una domanda
potentissima, tuttavia non può oltrepassare la zona cieca di Irma. Quante volte
succede, in qualunque tipo di reclusione, che un perché non riesca a varcare
una soglia importante?
«Mi
ci sono voluti quindici anni per capire che entravo in un luogo per scappare da
un altro. Talvolta, scelte che sembrano così alte, nascondono motivazioni meno
nobili. Indubbiamente, per qualche tempo, la vita in monastero mi aveva dato la
possibilità di coltivare e affinare la parte intellettuale e spirituale.
Tuttavia le emozioni, le sensazioni, e il corpo, erano in gabbia. Come si può
essere persone intere amputando una parte di sé? Non siamo stati creati per
vivere la totalità?Ho dato forma a una donna che non era me, e mentre cercavo
la verità in realtà mi sono dimenticata e trascurata.“Talvolta”, mi domandava
un’amica di recente, “non sarebbe meglio soggiornare ai margini della
consapevolezza”? Senza esitazione le ho risposto che no, non sarebbe meglio,
perché se indubbiamente per la consapevolezza tocca pagare dei prezzi, non sono
mai così alti quanto il costo di ciò che si ignora. Per mia fortuna, pur
essendomi accomodata in una zona cieca, non ho mai smesso di sentire un’eco,
una sorta di invito profondo a non perdermi, a compiermi, a espandermi. E’
questo che ora mi permette di non considerare quei quindici anni un fallimento,
uno sbaglio, ma una dura prova necessaria al mio cammino. La verità più ovvia è
che in monastero non ero felice, ma io, invece di accogliere quel sentimento
come una chiara indicazione, ho cercato di snaturarlo, guarirlo, giustificarlo.
Alla fine si è riversato sul corpo. Prima un tumore, poi mal di schiena
continui, infine una periartrite che mi ha tenuta immobile per tre settimane.
Quando giunsi al punto di non riuscire a vestirmi da sola, capii che sarei
diventata dipendente da altre persone per sempre. Fu una monaca che in quei
giorni disse, finalmente ad alta voce, ciò che io sapevo, ciò che le altre
monache sapevano. Lo disse in modo lieve, come una banalità da suggerire mentre
stava stirando:«Non hai mai pensato che forse semplicemente non avevi la
vocazione?».
Jung definisce individuazione il processo di
differenziazione che ha come meta lo sviluppo della propria personalità.
Riferendosi allo sviluppo della specificità di un individuo, rispettando la sua
autenticità, e predisposizione naturale. Potremmo dire che il compito
principale della nostra vita è diventare noi stessi, assecondando e coltivando
quella che è una necessità naturale poiché, quando questo percorso viene
ostacolato, la vitalità stessa di una persona è pregiudicata. Ciò che la suora
aveva detto a Irma è esattamente questo: non aveva la vocazione ed era dunque
lontana dal suo percorso individuativo. E i segnali che il corpo le dava,
stavano a significare che la malattia si era incaricata di dar voce a qualcosa
di altrimenti indicibile.
«L’ingresso in monastero aveva avuto per me il
sapore di una promessa eterna che mai avrei tradito: troppo alto il rischio di
perdere la stima in me stessa. Ma questa sfida mi aveva quasi portato alla
paralisi, fisica e interiore; solo la parte spirituale era vivissima, ma si
potrà mai lottare tutta la vita con Dio, accusandolo di qualcosa per cui è
innocente? Così, un giorno ho detto basta, e sono saltata fuori. Proprio così
lo sento, saltata fuori. Quando sono uscita, quasi sette anni fa, a quarantadue
anni, ero un essere spellato, fragile,
sconosciuto a se stesso, che doveva ricominciare tutto da capo. Dovevo
iniziare a capire chi ero e cosa
desideravo».
(continua)
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