giovedì 16 gennaio 2014

Le monache - storia di Irma

«Cerco la verità nella mia vita: il midollo delle cose», le dissi. La monaca mi rispose che se non l’avevo ancora trovata era perché non l’avevo cercata davvero. Avevo pochi anni - ventisei - e tante domande, in quel monastero di clausura nel quale ero entrata per accompagnare una mia amica. Nonostante il mio forte anticlericalismo, avevo voluto essere presente nel giorno del suo ingresso. Fu durante la partecipazione ai riti della Pasqua, osservando i gesti solenni del sacerdote, carichi di tempo e di tradizione, che il pensiero di avere vicino ciò che immaginavo lontano e irraggiungibile, mi fulminò. Netta, a distanza di ventitre anni, è la sensazione di un muro che si spezza, di uno schianto interiore, mentre appare il viso di Cristo, contornato di luce. Quell’immagine, nemmeno nei momenti di crisi profonda, ho potuto negarla.  Lì ho incontrato Colui che avevo a lungo cercato. E lì è rimasto ed è tuttora presente nella mia vita. La notte seguente quella giornata in convento era stata copiosa di lacrime che avevano spazzato via il dolore dei mesi precedenti, durante i quali i miei passi erano risuonati pesanti nel buio. Al risveglio sapevo che Cristo c’era, non mi serviva sapere altro, volevo solo iniziare a conoscerlo. Nove mesi dopo, gettai alle ortiche la vita precedente, ed entrai in monastero».
 Ciò che racconta Irma ha a che fare con qualcosa d’improvviso, impensato, che emerge accompagnato da immagini potenti. Quando un cambiamento è così repentino sarebbe necessario un tempo di verifica prima di crederlo definitivo. Le crisi sono spesso occasione di trasformazione e apprendimento, tuttavia giungere a decisioni affrettate può essere rischioso. I cocci con i quali ci si ritrova a fare i conti in un momento di rottura, richiedono un tempo per assestarsi e prendere nuove forme. Bisognerebbe osservarli prima, domandarsi da dove arrivano, perché, cosa significano, e solo in seguito con parte di quegli stessi cocci si potranno costruire nuove strade, abitare nuove forme.
 «A distanza di anni posso dire che la confusione fu mia e delle persone che in quel momento si assunsero (e io glielo permisi) il ruolo di guida, e so che la risposta della monaca era errata: ventisei anni sono una cifra ridicola per considerarsi in ritardo nell’aver trovato qualcosa. Talvolta, non si è nemmeno iniziato a cercare. Purtroppo, quella monaca, consapevole o meno, praticava le vie della manipolazione. Dal canto mio, pensai fosse vocazione una ricerca che portavo in grembo da lungo tempo: era una tensione invece, di certo non priva della tipica insoddisfazione esistenziale della giovinezza. La confusione però era probabilmente solo mia, poiché la reazione di tutte le persone a me vicine, si può sintetizzare con il gesto di un mio amico. Dietro suo compenso, qualcuno disegnò un murales gigante con il mio nome, e più sotto, in piccolo, defilate, nascoste, due sole parole: Irma, perché? Un perché rimasto irrisolto per molti. Un murales che ha resistito alle intemperie per quindici anni e che, con curiosa sincronicità, è stato cancellato durante una ristrutturazione, un mese dopo la mia uscita dal monastero».
La zona cieca è il titolo di un romanzo di Chiara Gamberale nel quale l’autrice fa riferimento a ciò che ciascuno ignora di sé mentre invece è chiaro a chi ci sta vicino. Quell’area oscura, incompresa o inconsapevole. Solo a noi, però. Quel “perché?” reso pubblico da un murales è una domanda potentissima, tuttavia non può oltrepassare la zona cieca di Irma. Quante volte succede, in qualunque tipo di reclusione, che un perché non riesca a varcare una soglia importante?
«Mi ci sono voluti quindici anni per capire che entravo in un luogo per scappare da un altro. Talvolta, scelte che sembrano così alte, nascondono motivazioni meno nobili. Indubbiamente, per qualche tempo, la vita in monastero mi aveva dato la possibilità di coltivare e affinare la parte intellettuale e spirituale. Tuttavia le emozioni, le sensazioni, e il corpo, erano in gabbia. Come si può essere persone intere amputando una parte di sé? Non siamo stati creati per vivere la totalità?Ho dato forma a una donna che non era me, e mentre cercavo la verità in realtà mi sono dimenticata e trascurata.“Talvolta”, mi domandava un’amica di recente, “non sarebbe meglio soggiornare ai margini della consapevolezza”? Senza esitazione le ho risposto che no, non sarebbe meglio, perché se indubbiamente per la consapevolezza tocca pagare dei prezzi, non sono mai così alti quanto il costo di ciò che si ignora. Per mia fortuna, pur essendomi accomodata in una zona cieca, non ho mai smesso di sentire un’eco, una sorta di invito profondo a non perdermi, a compiermi, a espandermi. E’ questo che ora mi permette di non considerare quei quindici anni un fallimento, uno sbaglio, ma una dura prova necessaria al mio cammino. La verità più ovvia è che in monastero non ero felice, ma io, invece di accogliere quel sentimento come una chiara indicazione, ho cercato di snaturarlo, guarirlo, giustificarlo. Alla fine si è riversato sul corpo. Prima un tumore, poi mal di schiena continui, infine una periartrite che mi ha tenuta immobile per tre settimane. Quando giunsi al punto di non riuscire a vestirmi da sola, capii che sarei diventata dipendente da altre persone per sempre. Fu una monaca che in quei giorni disse, finalmente ad alta voce, ciò che io sapevo, ciò che le altre monache sapevano. Lo disse in modo lieve, come una banalità da suggerire mentre stava stirando:«Non hai mai pensato che forse semplicemente non avevi la vocazione?».
Jung definisce individuazione il processo di differenziazione che ha come meta lo sviluppo della propria personalità. Riferendosi allo sviluppo della specificità di un individuo, rispettando la sua autenticità, e predisposizione naturale. Potremmo dire che il compito principale della nostra vita è diventare noi stessi, assecondando e coltivando quella che è una necessità naturale poiché, quando questo percorso viene ostacolato, la vitalità stessa di una persona è pregiudicata. Ciò che la suora aveva detto a Irma è esattamente questo: non aveva la vocazione ed era dunque lontana dal suo percorso individuativo. E i segnali che il corpo le dava, stavano a significare che la malattia si era incaricata di dar voce a qualcosa di altrimenti indicibile.
 «L’ingresso in monastero aveva avuto per me il sapore di una promessa eterna che mai avrei tradito: troppo alto il rischio di perdere la stima in me stessa. Ma questa sfida mi aveva quasi portato alla paralisi, fisica e interiore; solo la parte spirituale era vivissima, ma si potrà mai lottare tutta la vita con Dio, accusandolo di qualcosa per cui è innocente? Così, un giorno ho detto basta, e sono saltata fuori. Proprio così lo sento, saltata fuori. Quando sono uscita, quasi sette anni fa, a quarantadue  anni, ero un essere spellato, fragile, sconosciuto a se stesso, che doveva ricominciare tutto da capo. Dovevo iniziare  a capire chi ero e cosa desideravo».
(continua)
     

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