lunedì 7 aprile 2014

Alda Merini, Camille Claudel, Séraphine de Senlis e il manicomio

           

Il gobbo

Dalla solita sponda
del mattino
io mi guadagno
palmo a palmo il giorno:
il giorno dalle acque così grigie,
dall’espressione assente.

          Alda Merini


          Nel 1978 veniva approvata la chiusura dei manicomi e la nascita dei servizi di igiene mentale pubblici. La legge 180 prendeva il nome da Franco Basaglia, psichiatra, che fu il primo, in Italia, a introdurre la visione di un malato non più come “matto” o “pericoloso”, ma come persona che necessita di assistenza e cure. In quegli anni ebbero inizio una serie di cambiamenti che comprendevano alcuni principi utili a migliorare la condizione dei malati: uscire dallo spazio chiuso dei manicomi - coinvolgendo le famiglie, la società, l’ambiente -, e ponevano l’accento sulla prevenzione e la riabilitazione rispetto alle patologie croniche. Con la legge 180 cessò la consuetudine delle camicie di forza, dei bagni freddi, dei letti di contenzione, e degli elettroshock selvaggi. I cancelli dei manicomi si aprirono per lasciare i malati liberi di passeggiare nei cortili e nei giardini delle strutture, e di sperimentare modalità inedite di rapportarsi con il personale della comunità terapeutica. Venne affidato alle Regioni il compito di istituire servizi per occuparsi dei malati di mente e, di conseguenza, ci sono state differenze anche notevoli sul piano territoriale, sia in merito alla qualità dei servizi che alla tipologia delle strutture. A distanza di più di trent’anni dalla legge Basaglia si sono potute osservare anche le lacune che quel cambiamento aveva prodotto. La più grave riguarda la solitudine nella quale sono state lasciate alcune famiglie, impotenti a gestire malati che rifiutano le cure, creando un livello di malessere all’interno di tutto il nucleo famigliare; malessere che non di rado sfocia in casi di violenza. La reclusione da cui si era usciti chiudendo i manicomi, rischia in taluni casi di spostarsi all’interno dei muri delle case.
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«Nel 1969 ero stato assunto nell’Ospedale Psichiatrico di Racconigi. Ero uno dei tanto infermieri ai quali, in quegli anni, non erano richieste particolari competenze in merito al lavoro di cura, di relazione. Dovevamo vigilare affinché non ci fossero episodi di violenza, il nostro compito era quello di “fare la guardia”. Non era previsto che parlassimo con i pazienti, né con i medici: sarebbe stato impensabile, anche se il tempo che trascorrevamo con i malati era parecchio. Solo in seguito, quando con la legge Basaglia comparve la figura professionale degli educatori, ci furono i primi segnali di cambiamento. A parlare è Bruno, che ha vissuto in prima persona le trasformazioni radicali di quegli anni.
I miei primi ricordi, riguardano quelle enormi stanze, veri e propri cameroni con troppi letti allineati, e quando i malati mangiavano, usavano ancora delle scodelle di latta che venivano letteralmente buttate sul tavolo: qualcuno le rovesciava, qualcun altro urlava. Erano situazioni forti, pesanti, che a distanza di tanto tempo sono ben presenti nella mia memoria. Ma il momento del pasto era nulla al confronto di altri. Quando arrivava un nuovo malato, c’era questo rituale ferreo: veniva spogliato davanti a tutti, senza la minima attenzione al senso del pudore, veniva rasato completamente per timore dei pidocchi, e privato di ogni oggetto personale prima di fargli indossare un camicione bianco. E’ difficile dimenticare quelle sensazioni. Primo Levi aveva scritto Se questo è un uomo, noi, non eravamo in un lager, tuttavia quanto restasse di umano in quelle persone era una domanda che talvolta mi ponevo anch’io. Un uomo che viene spogliato senza il minimo tatto, messo in una vasca con gli stessi gesti incauti riservati a un oggetto poco importante. I suoi abiti venivano raccolti in un fagotto che veniva depositato insieme a molti altri in un locale adibito allo scopo. C’era uno stanza enorme, con numerosi scaffali pieni di fagotti, ognuno dei quali aveva un numero per distinguerlo  dagli altri.  Sarebbero rimasti - quasi sempre, per sempre - a impolverarsi insieme a troppi altri, dimenticati.
Quando gli educatori iniziarono a lavorare in manicomio, progettarono laboratori attraverso i quali introdussero l’arte, la musica, il teatro: ruppero un silenzio nel quale anche noi, insieme ai malati, eravamo rinchiusi».
In effetti fu attraverso questa nuova figura professionale che giunsero parecchie novità, prima fra tutte quella dell’uscire fuori. Inevitabile la resistenza di tante persone di fronte al nuovo. Infatti Bruno ricorda che il parroco non gradì affatto che i malati, a piccoli gruppi, accompagnati da educatori e infermieri, si recassero a messa nella chiesa del quartiere, e insisteva per continuare lui stesso a celebrarla in manicomio. Eppure, poco per volta, le aperture aumentarono e non era più così inconsueto incontrare dei malati che, accompagnati, si recavano dal barbiere, nei negozi, o camminavano per la strada. I cancelli si erano aperti.

         Alda Merini è considerata una dei grandi poeti del Novecento. Nella sua opera, tanto quanto nella sua vita, centrale è stata l'esperienza del manicomio in cui ha trascorso, sommando i vari ricoveri, quasi dieci anni. Esordì giovanissima con la raccolta di poesie La presenza di Orfeo, ed entrò in contatto con personalità come Maria Corti, Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo. In quegli stessi anni manifestò i primi segni della malattia mentale e, appena sedicenne, fu ricoverata per un mese a Villa Turro, a Milano. Parlerà spesso di quel ricovero, ne scriverà, come degli altri che invece durarono anni. Furono, insieme alle sue “ombre della mente”, sofferenze con le quali imparò a convivere e che lei stessa descrisse capaci di ucciderla e farla rinascere.
La sua è stata un'esistenza impetuosa, fino alla morte avvenuta nel 2009, a 78 anni. Agli anni della malattia ne ha alternati altri nei quali la produzione letteraria è stata fertile. La sua arte è stata rifugio e salvezza e quanto lo sia stata emerge dalle sue stesse parole: “Se la mia poesia mi abbandonasse come polvere o vento, se io non potessi più cantare, come polvere o vento, io cadrei a terra sconfitta, trafitta forse come la farfalla e in cerca della polvere d'oro”.

“Se tu mi concedessi soltanto la stanza della signora Régnier e la cucina, potresti chiudere il resto della casa. Non farei assolutamente nulla di riprovevole, ho sofferto troppo…”, scriveva Camille Claudel dal manicomio di Montdevergues alla madre. Su parere favorevole dei medici, avrebbe potuto tornare in libertà. Ma dove? Non aveva denaro, non aveva una casa in cui poter trascorrere la vecchiaia e dovette chiedere a sua madre di ospitarla. La madre, supportata dal figlio Paul Claudel, scrittore, diplomatico, fervente cattolico, richiudeva la lettera e lasciava la figlia in manicomio, premurandosi di scrivere al direttore: ”Tenetevela, ve ne supplico…Ha tutti i vizi, ci ha fatto troppo male”.
Camille è morta dopo aver trascorso reclusa gli ultimi trent’anni della sua vita. Trent’anni. A un certo punto qualcosa dentro di lei si era spezzato. Lei scultrice con un talento ancora troppo inconsueto per una donna e un tempo in cui avere una relazione con un uomo sposato era ben più difficile che ai giorni nostri; un tempo in cui una famiglia poteva tener rinchiusa in manicomio una donna scomoda per il resto della vita nonostante il parere contrario di medici che sostenevano che poteva tornare a casa. Intanto quella donna giura che non lo farà mai più, garantisce che non metterà mai più la sua famiglia così per bene in imbarazzo, aggiunge che mai più esprimerà il suo dolore in modo così plateale come lei ha fatto, distruggendo per esempio le sue opere. Quando la rabbia saliva e non c’era modo di contenerla, e non c’era modo di trovarle un luogo, un senso, un dopo, uno spazio, lei prendeva quelle forme scolpite e le faceva a pezzi. Distruggeva. Creava e distruggeva. Non sapeva che farne della rabbia e del dolore e li frantumava insieme alle sue opere.

In quegli stessi anni, in un’altra località della Francia, viveva Séraphine de Senlis. Di umili origini, lavorava come governante e di notte dipingeva. La natura era l’oggetto delle sue opere e per crearle mescolava pigmenti alla terra, al sangue e alle bacche. Casuale fu la sua scoperta: il critico d’arte e collezionista Wilhelm Uhde, ospite nella casa in cui lei era governante, vide una sua natura morta, rimase impressionato da ciò che un’autodidatta aveva dipinto, e decise di aiutarla. Organizzò mostre, le procurò i materiali per la sua arte e la supportò in ogni modo. Ma la Grande Depressione era dietro l’angolo: Wilhelm Uhde smise di comprare e vendere i suoi quadri. A Séraphine mancò l’unico punto fermo che la sosteneva e, complice un equilibrio già precario, finì in manicomio dove visse gli ultimi anni della sua vita. Fu ricoverata nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Clermont de l’Oise.

Mi piace immaginare Séraphine e Camille nello stesso manicomio. Si incontrano in una stanza dove ci sono colori, marmo e terre che plasmano con quella destrezza innata, e allentano in quel modo il buio delle stanze, le urla degli altri malati, i ricordi agghiaccianti, il presente crudele con i suoi odori senza speranza, la cattiveria che hanno incontrato e incontrano. Mi piace immaginare le opere di feroce bellezza che quegli anni terribili avrebbero prodotto. In fondo, però, quel che mi piacerebbe davvero semplicemente sapere che è che - insieme - si sarebbero fatte compagnia. Sono morte invece lontane dalla loro arte, dai loro affetti, in solitudine. Sono state sepolte in tombe comuni, senza nome.


         Alda Merini era nata nel 1931, Camille Claudel e Séraphine de Senlis erano nate entrambe nel 1864: anni nei quali pittura, scrittura, scultura erano considerate qualcosa di inquietante se declinato al femminile. Se a tutto ciò aggiungiamo qualche ribellione, stranezza, e atteggiamenti per nulla conformi ai dettami dell’epoca, non facciamo fatica a comprendere i fattori che le hanno condotte a vivere parecchi anni internate. Possedevano un ragguardevole talento nel loro campo, accompagnato da una fragilità emotiva che spesso - del medesimo - è artefice e sciagura.