L’ex Ospedale Psichiatrico di
Racconigi è chiuso al pubblico a causa dell’incuria del tempo che ha reso
pericolanti i padiglioni, e l’ente proprietario dell’immobile non dispone delle
risorse economiche necessarie per una ristrutturazione. Camminando nei viali
che circondano i vecchi edifici lo sguardo viene catturato dalle finestre
sigillate con dei mattoni: misura drastica, adottata in seguito al fatto che il
divieto di ingresso per motivi di sicurezza non veniva rispettato; in passato,
la reclusione in quei padiglioni era interna, non si poteva uscirne, oggi non
si può entrare. Solo uno di questi è ancora agibile, e attraversare quelle
stanze sapendo di calpestare un pavimento sul quale tanto dolore si è
trascinato, è un’esperienza forte. Almeno, per me lo è stata. Non so dire
quanto abbia inciso la suggestione della luce opaca di un pomeriggio di
pioggia, di fatto il materiale poroso dei muri di quelle stanze enormi sembra
trasudare gli odori del tempo. E i lamenti della follia nella ripetizione dei
deliri sembrano risuonare senza pace. Il mio sguardo che oltrepassa una
finestra posandosi sull’edera avvitata su se stessa, segue forse la stessa
traiettoria di altri sguardi, in altri tempi. Ci sono, in questi luoghi
polverosi, dagli infissi arrugginiti, ragnatele così fitte che sembrano aver
intrappolato il senso di impotenza, la vergogna, il dolore, l’oblio, le rabbie
- indicibili o urlabili in modo sconnesso - degli uomini e delle donne che vi
erano richiusi.
Non dimentichiamo che
durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale il numero dei ricoveri è
cresciuto, sia per coloro che alla guerra erano sopravvissuti fisicamente, ma
non emotivamente, sia per le donne che, a casa, macinavano una povertà ancora
più cruda di quanto già non fosse consueto. Senza contare che le partenze per
il fronte erano a volte non solo prive di ritorno, ma prive anche di un corpo
sul quale piangere quell’assenza; si viveva inoltre quotidianamente con la
tensione di ciò che di drammatico poteva accadere in ogni istante. Erano tempi nei quali la ricerca non aveva compiuto i progressi che
sono poi stati fruibili nei decenni successivi attraverso farmaci in grado di
alleggerire e contenere le manifestazioni di numerose patologie. Tempi nei
quali le terapie psicologiche erano appannaggio esclusivo di persone
appartenenti a ceti economicamente e culturalmente elevati. La malattia mentale
era qualcosa di più oscuro di quanto lo sia oggi, e le condizioni sociali,
ambientali, sanitarie, facevano sì che il numero di persone ricoverate in ogni
struttura fosse alto. Talmente alto che una prassi consolidata era quella di
costruire i manicomi in modo tale che chi “faceva la guardia” ai malati,
potesse avere dal corridoio una visione completa di due stanze
contemporaneamente.
Immagino quei cameroni
pieni di persone: qualcuno cammina da anni avanti e indietro sulle stesse
piastrelle, qualcun altro sta seduto senza speranza e senza memoria su uno
sgabello duro; qualcuno parla al vuoto dentro e fuori di sé, privo di stupore
per una risposta che non arriva mai; qualcun altro, di fronte a un dolore che
non poteva sostenere, ha mollato gli ormeggi della psiche lasciandosi
trascinare non importa dove. Fra di loro, mi sembra di intravedere il volto di
una donna che assomiglia a quello di Janet Frame. Anche i capelli sono ricci
come quelli della scrittrice neozelandese (1924-2004), ricoverata in manicomio
a causa di una errata diagnosi di schizofrenia, e poi scampata alla lobotomia
perché il medico che stava per effettuarla lesse di un premio appena vinto
dalla scrittrice. Quel riconoscimento fermò la sua mano. La donna che mi pare
di intravedere in quelle stanze è tutte le donne che non avevano mai vinto un
premio di scrittura o altro, che non appartenevano a famiglie in grado di
fronteggiare un periodo di crisi con adeguate cure, ma provenivano magari da
nuclei i cui componenti non si facevano scrupolo di lasciare un consanguineo
rinchiuso, se questo significava potersi accaparrare la sua eredità. Famiglie
che con la complicità di alcuni medici hanno abbandonato troppe persone, in
genere donne, in manicomio. Donne che attraverso lo spregio quotidiano della
parola giustizia, sono state recluse fino alla morte.