mercoledì 14 maggio 2014

I manicomi (ultima parte)

          L’ex Ospedale Psichiatrico di Racconigi è chiuso al pubblico a causa dell’incuria del tempo che ha reso pericolanti i padiglioni, e l’ente proprietario dell’immobile non dispone delle risorse economiche necessarie per una ristrutturazione. Camminando nei viali che circondano i vecchi edifici lo sguardo viene catturato dalle finestre sigillate con dei mattoni: misura drastica, adottata in seguito al fatto che il divieto di ingresso per motivi di sicurezza non veniva rispettato; in passato, la reclusione in quei padiglioni era interna, non si poteva uscirne, oggi non si può entrare. Solo uno di questi è ancora agibile, e attraversare quelle stanze sapendo di calpestare un pavimento sul quale tanto dolore si è trascinato, è un’esperienza forte. Almeno, per me lo è stata. Non so dire quanto abbia inciso la suggestione della luce opaca di un pomeriggio di pioggia, di fatto il materiale poroso dei muri di quelle stanze enormi sembra trasudare gli odori del tempo. E i lamenti della follia nella ripetizione dei deliri sembrano risuonare senza pace. Il mio sguardo che oltrepassa una finestra posandosi sull’edera avvitata su se stessa, segue forse la stessa traiettoria di altri sguardi, in altri tempi. Ci sono, in questi luoghi polverosi, dagli infissi arrugginiti, ragnatele così fitte che sembrano aver intrappolato il senso di impotenza, la vergogna, il dolore, l’oblio, le rabbie - indicibili o urlabili in modo sconnesso - degli uomini e delle donne che vi erano richiusi.
Non dimentichiamo che durante la Prima e la Seconda Guerra Mondiale il numero dei ricoveri è cresciuto, sia per coloro che alla guerra erano sopravvissuti fisicamente, ma non emotivamente, sia per le donne che, a casa, macinavano una povertà ancora più cruda di quanto già non fosse consueto. Senza contare che le partenze per il fronte erano a volte non solo prive di ritorno, ma prive anche di un corpo sul quale piangere quell’assenza; si viveva inoltre quotidianamente con la tensione di ciò che di drammatico poteva accadere in ogni istante.  Erano tempi nei quali  la ricerca non aveva compiuto i progressi che sono poi stati fruibili nei decenni successivi attraverso farmaci in grado di alleggerire e contenere le manifestazioni di numerose patologie. Tempi nei quali le terapie psicologiche erano appannaggio esclusivo di persone appartenenti a ceti economicamente e culturalmente elevati. La malattia mentale era qualcosa di più oscuro di quanto lo sia oggi, e le condizioni sociali, ambientali, sanitarie, facevano sì che il numero di persone ricoverate in ogni struttura fosse alto. Talmente alto che una prassi consolidata era quella di costruire i manicomi in modo tale che chi “faceva la guardia” ai malati, potesse avere dal corridoio una visione completa di due stanze contemporaneamente. 
Immagino quei cameroni pieni di persone: qualcuno cammina da anni avanti e indietro sulle stesse piastrelle, qualcun altro sta seduto senza speranza e senza memoria su uno sgabello duro; qualcuno parla al vuoto dentro e fuori di sé, privo di stupore per una risposta che non arriva mai; qualcun altro, di fronte a un dolore che non poteva sostenere, ha mollato gli ormeggi della psiche lasciandosi trascinare non importa dove. Fra di loro, mi sembra di intravedere il volto di una donna che assomiglia a quello di Janet Frame. Anche i capelli sono ricci come quelli della scrittrice neozelandese (1924-2004), ricoverata in manicomio a causa di una errata diagnosi di schizofrenia, e poi scampata alla lobotomia perché il medico che stava per effettuarla lesse di un premio appena vinto dalla scrittrice. Quel riconoscimento fermò la sua mano. La donna che mi pare di intravedere in quelle stanze è tutte le donne che non avevano mai vinto un premio di scrittura o altro, che non appartenevano a famiglie in grado di fronteggiare un periodo di crisi con adeguate cure, ma provenivano magari da nuclei i cui componenti non si facevano scrupolo di lasciare un consanguineo rinchiuso, se questo significava potersi accaparrare la sua eredità. Famiglie che con la complicità di alcuni medici hanno abbandonato troppe persone, in genere donne, in manicomio. Donne che attraverso lo spregio quotidiano della parola giustizia, sono state recluse fino alla morte.



lunedì 7 aprile 2014

Alda Merini, Camille Claudel, Séraphine de Senlis e il manicomio

           

Il gobbo

Dalla solita sponda
del mattino
io mi guadagno
palmo a palmo il giorno:
il giorno dalle acque così grigie,
dall’espressione assente.

          Alda Merini


          Nel 1978 veniva approvata la chiusura dei manicomi e la nascita dei servizi di igiene mentale pubblici. La legge 180 prendeva il nome da Franco Basaglia, psichiatra, che fu il primo, in Italia, a introdurre la visione di un malato non più come “matto” o “pericoloso”, ma come persona che necessita di assistenza e cure. In quegli anni ebbero inizio una serie di cambiamenti che comprendevano alcuni principi utili a migliorare la condizione dei malati: uscire dallo spazio chiuso dei manicomi - coinvolgendo le famiglie, la società, l’ambiente -, e ponevano l’accento sulla prevenzione e la riabilitazione rispetto alle patologie croniche. Con la legge 180 cessò la consuetudine delle camicie di forza, dei bagni freddi, dei letti di contenzione, e degli elettroshock selvaggi. I cancelli dei manicomi si aprirono per lasciare i malati liberi di passeggiare nei cortili e nei giardini delle strutture, e di sperimentare modalità inedite di rapportarsi con il personale della comunità terapeutica. Venne affidato alle Regioni il compito di istituire servizi per occuparsi dei malati di mente e, di conseguenza, ci sono state differenze anche notevoli sul piano territoriale, sia in merito alla qualità dei servizi che alla tipologia delle strutture. A distanza di più di trent’anni dalla legge Basaglia si sono potute osservare anche le lacune che quel cambiamento aveva prodotto. La più grave riguarda la solitudine nella quale sono state lasciate alcune famiglie, impotenti a gestire malati che rifiutano le cure, creando un livello di malessere all’interno di tutto il nucleo famigliare; malessere che non di rado sfocia in casi di violenza. La reclusione da cui si era usciti chiudendo i manicomi, rischia in taluni casi di spostarsi all’interno dei muri delle case.
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«Nel 1969 ero stato assunto nell’Ospedale Psichiatrico di Racconigi. Ero uno dei tanto infermieri ai quali, in quegli anni, non erano richieste particolari competenze in merito al lavoro di cura, di relazione. Dovevamo vigilare affinché non ci fossero episodi di violenza, il nostro compito era quello di “fare la guardia”. Non era previsto che parlassimo con i pazienti, né con i medici: sarebbe stato impensabile, anche se il tempo che trascorrevamo con i malati era parecchio. Solo in seguito, quando con la legge Basaglia comparve la figura professionale degli educatori, ci furono i primi segnali di cambiamento. A parlare è Bruno, che ha vissuto in prima persona le trasformazioni radicali di quegli anni.
I miei primi ricordi, riguardano quelle enormi stanze, veri e propri cameroni con troppi letti allineati, e quando i malati mangiavano, usavano ancora delle scodelle di latta che venivano letteralmente buttate sul tavolo: qualcuno le rovesciava, qualcun altro urlava. Erano situazioni forti, pesanti, che a distanza di tanto tempo sono ben presenti nella mia memoria. Ma il momento del pasto era nulla al confronto di altri. Quando arrivava un nuovo malato, c’era questo rituale ferreo: veniva spogliato davanti a tutti, senza la minima attenzione al senso del pudore, veniva rasato completamente per timore dei pidocchi, e privato di ogni oggetto personale prima di fargli indossare un camicione bianco. E’ difficile dimenticare quelle sensazioni. Primo Levi aveva scritto Se questo è un uomo, noi, non eravamo in un lager, tuttavia quanto restasse di umano in quelle persone era una domanda che talvolta mi ponevo anch’io. Un uomo che viene spogliato senza il minimo tatto, messo in una vasca con gli stessi gesti incauti riservati a un oggetto poco importante. I suoi abiti venivano raccolti in un fagotto che veniva depositato insieme a molti altri in un locale adibito allo scopo. C’era uno stanza enorme, con numerosi scaffali pieni di fagotti, ognuno dei quali aveva un numero per distinguerlo  dagli altri.  Sarebbero rimasti - quasi sempre, per sempre - a impolverarsi insieme a troppi altri, dimenticati.
Quando gli educatori iniziarono a lavorare in manicomio, progettarono laboratori attraverso i quali introdussero l’arte, la musica, il teatro: ruppero un silenzio nel quale anche noi, insieme ai malati, eravamo rinchiusi».
In effetti fu attraverso questa nuova figura professionale che giunsero parecchie novità, prima fra tutte quella dell’uscire fuori. Inevitabile la resistenza di tante persone di fronte al nuovo. Infatti Bruno ricorda che il parroco non gradì affatto che i malati, a piccoli gruppi, accompagnati da educatori e infermieri, si recassero a messa nella chiesa del quartiere, e insisteva per continuare lui stesso a celebrarla in manicomio. Eppure, poco per volta, le aperture aumentarono e non era più così inconsueto incontrare dei malati che, accompagnati, si recavano dal barbiere, nei negozi, o camminavano per la strada. I cancelli si erano aperti.

         Alda Merini è considerata una dei grandi poeti del Novecento. Nella sua opera, tanto quanto nella sua vita, centrale è stata l'esperienza del manicomio in cui ha trascorso, sommando i vari ricoveri, quasi dieci anni. Esordì giovanissima con la raccolta di poesie La presenza di Orfeo, ed entrò in contatto con personalità come Maria Corti, Giorgio Manganelli e Salvatore Quasimodo. In quegli stessi anni manifestò i primi segni della malattia mentale e, appena sedicenne, fu ricoverata per un mese a Villa Turro, a Milano. Parlerà spesso di quel ricovero, ne scriverà, come degli altri che invece durarono anni. Furono, insieme alle sue “ombre della mente”, sofferenze con le quali imparò a convivere e che lei stessa descrisse capaci di ucciderla e farla rinascere.
La sua è stata un'esistenza impetuosa, fino alla morte avvenuta nel 2009, a 78 anni. Agli anni della malattia ne ha alternati altri nei quali la produzione letteraria è stata fertile. La sua arte è stata rifugio e salvezza e quanto lo sia stata emerge dalle sue stesse parole: “Se la mia poesia mi abbandonasse come polvere o vento, se io non potessi più cantare, come polvere o vento, io cadrei a terra sconfitta, trafitta forse come la farfalla e in cerca della polvere d'oro”.

“Se tu mi concedessi soltanto la stanza della signora Régnier e la cucina, potresti chiudere il resto della casa. Non farei assolutamente nulla di riprovevole, ho sofferto troppo…”, scriveva Camille Claudel dal manicomio di Montdevergues alla madre. Su parere favorevole dei medici, avrebbe potuto tornare in libertà. Ma dove? Non aveva denaro, non aveva una casa in cui poter trascorrere la vecchiaia e dovette chiedere a sua madre di ospitarla. La madre, supportata dal figlio Paul Claudel, scrittore, diplomatico, fervente cattolico, richiudeva la lettera e lasciava la figlia in manicomio, premurandosi di scrivere al direttore: ”Tenetevela, ve ne supplico…Ha tutti i vizi, ci ha fatto troppo male”.
Camille è morta dopo aver trascorso reclusa gli ultimi trent’anni della sua vita. Trent’anni. A un certo punto qualcosa dentro di lei si era spezzato. Lei scultrice con un talento ancora troppo inconsueto per una donna e un tempo in cui avere una relazione con un uomo sposato era ben più difficile che ai giorni nostri; un tempo in cui una famiglia poteva tener rinchiusa in manicomio una donna scomoda per il resto della vita nonostante il parere contrario di medici che sostenevano che poteva tornare a casa. Intanto quella donna giura che non lo farà mai più, garantisce che non metterà mai più la sua famiglia così per bene in imbarazzo, aggiunge che mai più esprimerà il suo dolore in modo così plateale come lei ha fatto, distruggendo per esempio le sue opere. Quando la rabbia saliva e non c’era modo di contenerla, e non c’era modo di trovarle un luogo, un senso, un dopo, uno spazio, lei prendeva quelle forme scolpite e le faceva a pezzi. Distruggeva. Creava e distruggeva. Non sapeva che farne della rabbia e del dolore e li frantumava insieme alle sue opere.

In quegli stessi anni, in un’altra località della Francia, viveva Séraphine de Senlis. Di umili origini, lavorava come governante e di notte dipingeva. La natura era l’oggetto delle sue opere e per crearle mescolava pigmenti alla terra, al sangue e alle bacche. Casuale fu la sua scoperta: il critico d’arte e collezionista Wilhelm Uhde, ospite nella casa in cui lei era governante, vide una sua natura morta, rimase impressionato da ciò che un’autodidatta aveva dipinto, e decise di aiutarla. Organizzò mostre, le procurò i materiali per la sua arte e la supportò in ogni modo. Ma la Grande Depressione era dietro l’angolo: Wilhelm Uhde smise di comprare e vendere i suoi quadri. A Séraphine mancò l’unico punto fermo che la sosteneva e, complice un equilibrio già precario, finì in manicomio dove visse gli ultimi anni della sua vita. Fu ricoverata nel reparto psichiatrico dell'ospedale di Clermont de l’Oise.

Mi piace immaginare Séraphine e Camille nello stesso manicomio. Si incontrano in una stanza dove ci sono colori, marmo e terre che plasmano con quella destrezza innata, e allentano in quel modo il buio delle stanze, le urla degli altri malati, i ricordi agghiaccianti, il presente crudele con i suoi odori senza speranza, la cattiveria che hanno incontrato e incontrano. Mi piace immaginare le opere di feroce bellezza che quegli anni terribili avrebbero prodotto. In fondo, però, quel che mi piacerebbe davvero semplicemente sapere che è che - insieme - si sarebbero fatte compagnia. Sono morte invece lontane dalla loro arte, dai loro affetti, in solitudine. Sono state sepolte in tombe comuni, senza nome.


         Alda Merini era nata nel 1931, Camille Claudel e Séraphine de Senlis erano nate entrambe nel 1864: anni nei quali pittura, scrittura, scultura erano considerate qualcosa di inquietante se declinato al femminile. Se a tutto ciò aggiungiamo qualche ribellione, stranezza, e atteggiamenti per nulla conformi ai dettami dell’epoca, non facciamo fatica a comprendere i fattori che le hanno condotte a vivere parecchi anni internate. Possedevano un ragguardevole talento nel loro campo, accompagnato da una fragilità emotiva che spesso - del medesimo - è artefice e sciagura. 

venerdì 31 gennaio 2014

Le monache - storia di Irma - seconda parte

         Mi ha sempre incuriosito la quotidianità della vita in un convento: quanto possa essere protettivo il susseguirsi delle giornate scandito da ritmi sempre uguali. Infatti, una delle prime domande che ho posto a Irma, riguarda proprio la struttura delle attività di ogni giorno.
         «La vita quotidiana in monastero l’ho sempre paragonata a un mantra, a una griglia fissa di orari, incombenze, che permettono di innalzare lo sguardo, non avendo preoccupazione per le cose quotidiane. Non bisogna decidere, né scegliere: esiste un ritmo di preghiera, lavoro, preghiera, lavoro, preghiera, pranzo, solitudine, preghiera, cena, solitudine. Per trecentosessantacinque giorni l’anno. E’ un ritmo che ha un che di riposante, e che permette di coltivare  il rapporto con Dio, con il Cristo, in un susseguirsi di gesti e riti sempre uguali, ciclici. E’ questa la cosa meravigliosa di una vita claustrale: il contatto diretto con il mistero attraverso la liturgia, che dà allo scorrere del tempo, un senso, un disegno, una direzione.
Ho vissuto in monasteri che coltivavano la bellezza, e dentro i quali la liturgia era celebrata, cantata. Quel che sottolineo oggi però, è che mancava un aspetto fondamentale. Mancava il corpo. La liturgia avrebbe dovuto poter essere anche danzata per essere completa, perché tutto il corpo potesse partecipare alla gioia. Che gioia è se il corpo non si muove? Gli ebrei danzavano i salmi, Davide il folle danzava davanti all’arca di Dio, la sorella di Mosè, la profetessa, danzava all’apertura del Mar Rosso. Noi, invece, cantiamo immobili in una postura rigida che spacca in due il nostro essere: tutta l’energia concentrata in alto, nella testa, nello spirito, mentre il corpo si svuota, il centro vitale si impoverisce, si ammala. Eppure, potrebbe essere una bella forma di vita: non c’è da pensare all’affitto, al cibo. La sveglia alle 5,30, il buio fuori, il silenzio, queste figure scure che indossano abiti sempre uguali, neri, coprenti, che avanzano nei corridoi dove i loro passi riecheggiano verso la cucina: questo rito del caffè mattutino, deliziosamente umano. Poi in cappella, per la meditazione, la preghiera e dopo, il lavoro, che cambia a seconda dei monasteri: lavanderia, cucito, icone, cucina, portineria, orto. In silenzio. Mi è rimasto addosso l’uso parco delle parole, una propensione a non perdere tempo con ciò che non è necessario».
         “Il racconto di un’esperienza spaesante”, così descrive Ferdinando Camon, la lettura del libro Sulle strade del silenzio. Viaggio nei monasteri d’Italia di Giorgio Boatti, nella recensione che ha scritto su Tuttolibri. E aggiunge: “Spaesante vuol dire che ti porta fuori dal tuo paese, dentro un altro paese, fuori dal tuo tempo, dentro un altro tempo, fuori dalla tua vita, dentro un’altra vita. Fuori dalla tua civiltà, dentro un’altra civiltà”. In un continuo dentro/fuori privo di connessioni, ponti, collegamenti. Nella storia di Irma, a un certo punto, l’altro tempo, l’altra civiltà, l’altra vita, la sua vita, si sono fatti urgenti, impellenti, hanno preteso di esistere. E lei è saltata fuori.
          «La vita che vivo oggi è reale, concreta, fatta - come si dice - di sangue e polvere. Sento la durezza, la fatica, il sudore, l’incertezza, e l’estenuante ricerca individuale del mio sentiero, senza facilitazioni, né scorciatoie. Questo è il mio luogo ora, la mia casa. Un luogo nel quale continuo a essere liturgicamente dentro il Mistero, che batte strade strane, non sempre ortodosse. Quando ero in monastero, ero certa della mia identità, del mio ruolo, e della mia missione: oggi li chiamo i miei alibi perfetti per nascondermi. Ero diventata espertissima nel non farmi vedere, nello scomparire allo sguardo altrui. Così brava che neanch’io mi vedevo più. E’ stato il lavoro più intenso in questi sei anni: guardarmi di nuovo, ascoltarmi, espormi, non nascondermi. Ed è stato difficile perché il nascondimento è proprio il tema della clausura, dunque ciò che è avvenuto - per me - è stato semplicemente il cristallizzarsi di una predisposizione».
          Irma non ho potuto incontrarla di persona. Gli impegni reciproci, la distanza geografica, hanno reso impossibile ciò che desideravamo entrambe. Mentre scrivevo questa storia mi domandavo se sarei riuscita a procedere priva di quell’energia creativa che deriva da un incontro, e delle numerose sfumature che giungono dalla comunicazione del corpo. Ma avevo sottovalutato la potenza della voce. Oltre alla comunicazione via mail, ci siamo parlate al telefono, e il suono delle sue parole ha sostituito il nostro incontro. Una voce autorevole e insieme dolcissima, autentica. Una voce nel corpo, che così ha concluso la sua testimonianza.
           «Sono uscita dal monastero un mattino di settembre: avevo quarantadue anni, ero senza lavoro, senza denaro, ed esperienze professionali. Davanti a me, uno spaventoso salto nel buio: ricominciare a vivere. Per anni avevo ascoltato i cuori altrui, quel giorno iniziai a sentire il mio lasciando che le emozioni lo attraversassero. Sperduta? Terrorizzata? Inadeguata? Non sapevo quale fosse la sensazione più potente. Camminavo per le strade di quindici anni prima, e quando incontravo volti conosciuti, sul mio si disegnavano l’ansia, la vergogna, il fallimento. Li accettai: avevano il diritto di esistere. Un mese dopo, grazie anche a uno dei misteriosi incroci della Provvidenza, avevo già trovato un lavoro. Certo non è stato facile. Mi sentivo in ritardo su tutto, avevo più di quarant’anni ed era come se fossi appena uscita dall’università. Attraverso un’associazione che si occupava di teatro-danza per disabili, venni a conoscenza della danza terapia, e io riconduco sempre a quel momento l’inizio della nuova vita. Scoprii che il corpo parlava, che diceva cose più autentiche della ragione. Bastava ascoltare, bastava sentire le sensazioni e le emozioni che si rendono percepibili attraverso la pelle, gli organi, e che indicano in modo chiaro ciò che fa bene e ciò che intossica. Naturalmente è stato necessario un lungo lavoro per ridare suono alle corde di uno strumento a lungo dimenticato, ma è stato esaltante, coinvolgente: un’apertura alla vita spezzando la gabbia di identità fittizia nella quale mi ero volontariamente rinchiusa. Dunque un corpo non più nemico e ricettacolo di pulsioni e tentazioni, non la sede del male, un peso, o un animale selvatico da domare, bensì un corpo attraverso il quale avevo la  possibilità di mettermi in gioco per gli altri; corpo come strumento di una forte passione educativa che ho voglia di comunicare agli altri, nella quale ho trovato quella soddisfazione dell’anima che si riposa sapendo di vivere finalmente con spirito, anima e corpo integrati. Ora - finalmente - vivo la totalità. Da quando ho smesso di raccontarmi che rinchiusa sto bene, mi sento protetta. E se talvolta mi domando qual è - adesso - la mia missione, non ho risposta, ma è proprio questa incertezza che lascia aperta la possibilità di cercarla. E dopo tanta reclusione, nelle aperture respiro a fondo, e respiro nella danza, quella danza che nella cultura religiosa cattolica ha ancora poca residenza. Un giorno forse potrò dare in merito il mio contributo, o forse no. Si vedrà. Lascio che accadano le cose, senza imprigionarle in certezze inesistenti, in gabbie rigide, e se non trovo risposte non importa, il valore sta nel viaggio stesso. Vivere questa vita - la mia - è la strada, adesso. E ci danzo dentro».



giovedì 16 gennaio 2014

Le monache - storia di Irma

«Cerco la verità nella mia vita: il midollo delle cose», le dissi. La monaca mi rispose che se non l’avevo ancora trovata era perché non l’avevo cercata davvero. Avevo pochi anni - ventisei - e tante domande, in quel monastero di clausura nel quale ero entrata per accompagnare una mia amica. Nonostante il mio forte anticlericalismo, avevo voluto essere presente nel giorno del suo ingresso. Fu durante la partecipazione ai riti della Pasqua, osservando i gesti solenni del sacerdote, carichi di tempo e di tradizione, che il pensiero di avere vicino ciò che immaginavo lontano e irraggiungibile, mi fulminò. Netta, a distanza di ventitre anni, è la sensazione di un muro che si spezza, di uno schianto interiore, mentre appare il viso di Cristo, contornato di luce. Quell’immagine, nemmeno nei momenti di crisi profonda, ho potuto negarla.  Lì ho incontrato Colui che avevo a lungo cercato. E lì è rimasto ed è tuttora presente nella mia vita. La notte seguente quella giornata in convento era stata copiosa di lacrime che avevano spazzato via il dolore dei mesi precedenti, durante i quali i miei passi erano risuonati pesanti nel buio. Al risveglio sapevo che Cristo c’era, non mi serviva sapere altro, volevo solo iniziare a conoscerlo. Nove mesi dopo, gettai alle ortiche la vita precedente, ed entrai in monastero».
 Ciò che racconta Irma ha a che fare con qualcosa d’improvviso, impensato, che emerge accompagnato da immagini potenti. Quando un cambiamento è così repentino sarebbe necessario un tempo di verifica prima di crederlo definitivo. Le crisi sono spesso occasione di trasformazione e apprendimento, tuttavia giungere a decisioni affrettate può essere rischioso. I cocci con i quali ci si ritrova a fare i conti in un momento di rottura, richiedono un tempo per assestarsi e prendere nuove forme. Bisognerebbe osservarli prima, domandarsi da dove arrivano, perché, cosa significano, e solo in seguito con parte di quegli stessi cocci si potranno costruire nuove strade, abitare nuove forme.
 «A distanza di anni posso dire che la confusione fu mia e delle persone che in quel momento si assunsero (e io glielo permisi) il ruolo di guida, e so che la risposta della monaca era errata: ventisei anni sono una cifra ridicola per considerarsi in ritardo nell’aver trovato qualcosa. Talvolta, non si è nemmeno iniziato a cercare. Purtroppo, quella monaca, consapevole o meno, praticava le vie della manipolazione. Dal canto mio, pensai fosse vocazione una ricerca che portavo in grembo da lungo tempo: era una tensione invece, di certo non priva della tipica insoddisfazione esistenziale della giovinezza. La confusione però era probabilmente solo mia, poiché la reazione di tutte le persone a me vicine, si può sintetizzare con il gesto di un mio amico. Dietro suo compenso, qualcuno disegnò un murales gigante con il mio nome, e più sotto, in piccolo, defilate, nascoste, due sole parole: Irma, perché? Un perché rimasto irrisolto per molti. Un murales che ha resistito alle intemperie per quindici anni e che, con curiosa sincronicità, è stato cancellato durante una ristrutturazione, un mese dopo la mia uscita dal monastero».
La zona cieca è il titolo di un romanzo di Chiara Gamberale nel quale l’autrice fa riferimento a ciò che ciascuno ignora di sé mentre invece è chiaro a chi ci sta vicino. Quell’area oscura, incompresa o inconsapevole. Solo a noi, però. Quel “perché?” reso pubblico da un murales è una domanda potentissima, tuttavia non può oltrepassare la zona cieca di Irma. Quante volte succede, in qualunque tipo di reclusione, che un perché non riesca a varcare una soglia importante?
«Mi ci sono voluti quindici anni per capire che entravo in un luogo per scappare da un altro. Talvolta, scelte che sembrano così alte, nascondono motivazioni meno nobili. Indubbiamente, per qualche tempo, la vita in monastero mi aveva dato la possibilità di coltivare e affinare la parte intellettuale e spirituale. Tuttavia le emozioni, le sensazioni, e il corpo, erano in gabbia. Come si può essere persone intere amputando una parte di sé? Non siamo stati creati per vivere la totalità?Ho dato forma a una donna che non era me, e mentre cercavo la verità in realtà mi sono dimenticata e trascurata.“Talvolta”, mi domandava un’amica di recente, “non sarebbe meglio soggiornare ai margini della consapevolezza”? Senza esitazione le ho risposto che no, non sarebbe meglio, perché se indubbiamente per la consapevolezza tocca pagare dei prezzi, non sono mai così alti quanto il costo di ciò che si ignora. Per mia fortuna, pur essendomi accomodata in una zona cieca, non ho mai smesso di sentire un’eco, una sorta di invito profondo a non perdermi, a compiermi, a espandermi. E’ questo che ora mi permette di non considerare quei quindici anni un fallimento, uno sbaglio, ma una dura prova necessaria al mio cammino. La verità più ovvia è che in monastero non ero felice, ma io, invece di accogliere quel sentimento come una chiara indicazione, ho cercato di snaturarlo, guarirlo, giustificarlo. Alla fine si è riversato sul corpo. Prima un tumore, poi mal di schiena continui, infine una periartrite che mi ha tenuta immobile per tre settimane. Quando giunsi al punto di non riuscire a vestirmi da sola, capii che sarei diventata dipendente da altre persone per sempre. Fu una monaca che in quei giorni disse, finalmente ad alta voce, ciò che io sapevo, ciò che le altre monache sapevano. Lo disse in modo lieve, come una banalità da suggerire mentre stava stirando:«Non hai mai pensato che forse semplicemente non avevi la vocazione?».
Jung definisce individuazione il processo di differenziazione che ha come meta lo sviluppo della propria personalità. Riferendosi allo sviluppo della specificità di un individuo, rispettando la sua autenticità, e predisposizione naturale. Potremmo dire che il compito principale della nostra vita è diventare noi stessi, assecondando e coltivando quella che è una necessità naturale poiché, quando questo percorso viene ostacolato, la vitalità stessa di una persona è pregiudicata. Ciò che la suora aveva detto a Irma è esattamente questo: non aveva la vocazione ed era dunque lontana dal suo percorso individuativo. E i segnali che il corpo le dava, stavano a significare che la malattia si era incaricata di dar voce a qualcosa di altrimenti indicibile.
 «L’ingresso in monastero aveva avuto per me il sapore di una promessa eterna che mai avrei tradito: troppo alto il rischio di perdere la stima in me stessa. Ma questa sfida mi aveva quasi portato alla paralisi, fisica e interiore; solo la parte spirituale era vivissima, ma si potrà mai lottare tutta la vita con Dio, accusandolo di qualcosa per cui è innocente? Così, un giorno ho detto basta, e sono saltata fuori. Proprio così lo sento, saltata fuori. Quando sono uscita, quasi sette anni fa, a quarantadue  anni, ero un essere spellato, fragile, sconosciuto a se stesso, che doveva ricominciare tutto da capo. Dovevo iniziare  a capire chi ero e cosa desideravo».
(continua)
     

giovedì 2 gennaio 2014

Le monache - (seconda parte)

E sempre libertà è la parola chiave che attraversa il libro La nota segreta di Marta Morazzoni: un romanzo storico, d’avventura, d’amore e di conoscenza di sé, che l’autrice ha scritto basandosi su fatti realmente accaduti sui quali ha poi costruito la finzione romanzesca.
Paola Pietra era una giovane contessa che venne rinchiusa a tredici anni nel monastero benedettino di Santa Radegonda, a Milano, nella prima metà del Settecento. L’unico antidoto alla solitudine di Paola fu l’incontro con Suor Rosalba Guenzani, nota in tutta la città (alle messe cantate del monastero potevano partecipare anche i cittadini), per le sue doti di soprano e per la bravura nel dirigere il coro. La loro fu una relazione di amicizia e complicità, e insieme coltivarono la voce di contralto che la Pietra possedeva già potente e preziosa. E fu proprio quella voce, quella “nota segreta”, a condurre Paola fuori da quelle mura opprimenti.
Un diplomatico inglese, Sir John Durant Breval, la udì, ne fu rapito e la narrazione del romanzo segue le peripezie del loro incontro, della fuga di suor Paola dal convento e delle varie prove che dovette superare per rivendicare il diritto a vivere una vita al di là delle imposizioni. Una delle sfide che affrontò con tenacia e determinazione fu quella di lottare per ottenere lo scioglimento del vincolo religioso. Era stata rinchiusa contro la sua volontà, la fuga non le rendeva giustizia: pretendeva che le venisse riconosciuto il diritto a essere libera. Nel romanzo, nel viaggio della sua vita, attraverso la musica, Suor Paola si esplorò, si incontrò. Infine, attraverso quella nota segreta, si aprirono le porte del monastero.
Non così è accaduto a Suor Arcangela Tarabotti (1604-1652). Anche lei rinchiusa contro la propria volontà nel monastero di Sant'Anna di Venezia, dove rimase tutta la vita. La sua vera vocazione era la scrittura e nel libro La semplicità ingannata denunciò la violenza sociale sottesa alla pratica di rinchiudere le giovani donne nei monasteri e analizzò le motivazioni politiche ed economiche che spiegavano quella odiosa abitudine. Scrisse inoltre le Lettere familiari e di complimento che probabilmente le diedero la possibilità di superare gli esigui confini del suo mondo permettendole di mantenere una corrispondenza con personaggi intellettuali e religiosi dell’epoca.
Possiamo forse immaginare che la scrittura di La semplicità ingannata consentì alla Tarabotti di esprimere la rabbia della reclusione, e che quando scrisse le Lettere familiari e di complimento avesse in qualche modo elaborato (si era rassegnata?) il fatto di vivere in un monastero: attraverso il carteggio aveva provato il piacere di scrivere e la sensazione della realizzazione di sé. Per alcune donne il convento è stato ed è anche questo: una stanza tutta per sé dentro la quale coltivare la cultura. Altre, rinchiuse, si rassegnarono e vi trascorsero la vita che a un certo punto trovarono forse accettabile, alcune si ribellarono e nacquero storie come quelle di suor Paola Pietra, altre ancora fecero buon viso a cattivo gioco e ne approfittarono per coltivare la spiritualità.
La figura di Suor Rosalba, del romanzo La nota segreta fa emergere in modo chiaro come per alcune donne il convento sia stato un modo per abitare la propria nicchia nel mondo. Una nicchia dal perimetro limitato, che non escludeva però viaggi interiori di notevole portata, con la gratificazione che deriva dalla musica, dalle parole, dal ricamo, dalla meditazione. Alcune invece impazzirono o si suicidarono.
Transitando da un passato più remoto a uno più recente, incontriamo uno dei capitoli più drammatici che riguardano la reclusione femminile: le lavandaie-schiave d’Irlanda. Dal 1922 al 1996, quattro ordini religiosi hanno tenuto in “custodia” trentamila donne: prostitute, ragazze madri o semplicemente ribelli. Venivano chiamate Maddalene, “perdute” secondo la morale cattolica. Rifiutate dalle famiglie trascorrevano le giornate a lavare le lenzuola e le tovaglie dell’esercito o degli ospedali e subivano dalle suore violenze inaudite che il film The Magdalene Sister di Peter Mullan (2002) ha denunciato.
Il Comitato contro le torture dell’Onu ha chiesto recentemente di aprire un’inchiesta, ma il governo irlandese finora non ha dato risposte. La Chiesa, dal canto suo, declina ogni responsabilità rimandando agli ordini religiosi locali, i quali continuano a tacere. Silenzio, lo stesso silenzio che troppo a lungo la Chiesa ha mantenuto in merito alla pedofilia. Il non detto, i segreti, le trame nascoste, il potere usato per nascondere. Ma nascondere trentamila donne è difficile, nonostante il fatto che quelle decedute siano state sepolte senza nome - mai nate, nonostante la perentorietà con la quale si è impedito a quelle che erano madri di incontrare i propri figli. Quando le lavanderie sono state chiuse, le donne che erano troppo anziane hanno continuato a vivere in convento: non avevano altro luogo in cui andare. Infine, quelle che hanno avuto la forza di non soccombere per le violenze fisiche, sessuali, psicologiche subite, attendono ancora un risarcimento e pubbliche scuse. Perché i monasteri, i conventi, sono anche luoghi in cui il silenzio, l’isolamento, la privazione della libertà, la rinuncia, diventano violenza, rabbia, invidie, ripicche e cattiverie che raggiungono livelli talvolta inimmaginabili.

Nel luglio del 2000 una suora di 65 anni si è suicidata buttandosi dalla finestra della sua stanza, nel monastero di Santa Chiara, a Roma. Aveva lasciato un biglietto nel quale chiedeva perdono per il suo gesto. La madre superiora, che spesso impediva alla suora di uscire dal convento, aveva così commentato l’accaduto: ”Siamo nel dolore, non è il momento di parlare”. Se non si trattasse di una tragedia, ci sarebbe da ridere. Sarà mai il momento di parlare?

Si è conclusa decisamente meglio invece l’avventura di Suor Maria Jesús Galán, suora di clausura da trentacinque anni. Tre anni fa ha digitalizzato tutto l’archivio della biblioteca del Convento Santo Domingo El Real, fondato nel 1364 a Toledo, e ha ricevuto la Targa al Merito Regionale di Castiglia-La Mancha per “la classificazione di documenti e libri della biblioteca conventuale e l’introduzione delle tecnologie in un ambiente tradizionale”.
Suor Maria Jesús Galán navigava in rete e aveva un profilo su facebook attraverso il quale ha mantenuto un contatto con l’esterno. Proprio la possibilità così inconsueta di confrontarsi con più persone, ha scatenato invidie tali tra le consorelle che un bel giorno, la suora, ha comunicato sul suo profilo on-line che l’avevano cacciata dal monastero. “Suor internet” - così viene chiamata per la sua passione per le tecnologie - ha commentato la faccenda spiegando che si è iscritta alle liste di collocamento e spera di trovare lavoro nel campo che l’appassiona molto e di cui è esperta, desidera inoltre da tanto tempo visitare Londra e New York, potrebbe essere questa l’occasione giusta.


Ci sono dei ponti per tornare nel mondo: per chi lo desidera, per chi ne ha il coraggio, per chi è tenace. Per esempio, La nota segreta, per Suor Maria Jesús Galán è stata internet.
(continua)

mercoledì 1 gennaio 2014

Le monache

Generazioni e generazioni di donne, dal Medioevo in avanti, hanno scelto di vivere in convento perché sentivano che quella era la loro vocazione o perché sapevano che fosse l’unico luogo possibile per sottrarsi a un destino di moglie e di madre o per accedere alla cultura altrimenti negata. A molte altre donne, invece, prendere i voti è stato imposto dalle famiglie, prevalentemente per questioni ereditarie, quando non si è trattato di una vera e propria punizione, per un amore “sbagliato”, o per piegare una ribellione. Queste giovani, spesso poco più che bambine, sono state cancellate dall’asse ereditario, dalla vita, dalla memoria stessa. Nascoste, dimenticate, mai nate.
Enrichetta Caracciolo Forino nacque a Napoli nel 1821. Alla morte del padre, appena adolescente, fu mandata dalla madre in monastero, contro la sua volontà, continuando in questo modo la radicata tradizione del convento come destino per le figlie femmine. Destino da cui era esclusa la primogenita. Purtroppo Enrichetta era la quinta di sette figlie. Partì dunque per il monastero napoletano di san Gregorio Armeno nel quale a vent’anni pronunciò i voti e abitò insieme ad altre donne di analogo destino giunte in quel luogo senza un barlume di vocazione. Enrichetta Caracciolo fissò nella sua memoria ogni sensazione, ogni particolare, ogni incongruenza di ciò che accadeva nel monastero. La sua intelligenza, unita a uno sguardo lucido e critico, furono caratteristiche che insieme al suo malessere, alla sua inquietudine, al non senso di trovarsi in quel luogo le permisero di trovare spazio e parola nel libro che pubblicò nel 1864: Misteri del chiostro napoletano. Ma gli anni precedenti la pubblicazione del volume che ebbe vasta risonanza e fu tradotto in diverse lingue, Enrichetta li trascorse nei disperati tentativi di uscire dal convento. Con l’elezione di Pio IX, pontefice dall’animo più liberale, sperò che l’istanza presentata per ottenere lo scioglimento dei voti potesse avere un esito favorevole. Motivò la richiesta adducendo i reali problemi di salute che la reclusione forzata le provocavano, ma il parere negativo, a lungo reiterato, dell’arcivescovo di Napoli, Riario Sforza, fece sì che la sua permanenza in quel luogo continuasse.
Furono i moti rivoluzionari del 1848 che portarono qualche cambiamento: ottenne infatti che un inviato del papa le portasse l’autorizzazione a trasferirsi in conservatorio. Fu un primo passo, poiché la richiesta iniziale era stata quella di poter abitare la casa di sua madre Teresa con la quale si era riconciliata. Proprio l'intransigenza della madre, determinata a risposarsi dopo la vedovanza, aveva condotto Enrichetta in monastero durante l'adolescenza. Tuttavia, non fu semplice trovare il conservatorio che l’accogliesse poiché - libera e imprevedibile - era ritenuta una donna pericolosa.
Dopo svariati tentativi ottenne infine una stanza al Conservatorio delle suore di Costantinopoli, dal quale poteva uscire di giorno, anche se solo accompagnata dalla madre. L’anno successivo, persa ormai la speranza di ottenere una dispensa definitiva dai voti, fuggì. Poco tempo dopo visse ospite dalla sorella ed è in questo periodo che svolse un ruolo di “staffetta” di una società patriottica consegnando messaggi ai vari affiliati. Periodo di libertà che durò poco: venne arrestata senza spiegazione alcuna, anche se lei sapeva che l’antica acredine dell’arcivescovo Riario o l’accusa di spionaggio erano i probabili motivi. Rimase segregata nel ritiro di Mondragone per più di tre anni. Fu un periodo terribile, nel quale tentò il suicidio, rifiutò il cibo e passò il tempo a leggere i pochi libri che le avevano lasciato dopo averne valutato il grado di aderenza ai dogmi del luogo. Eppure resistette, e il 4 novembre 1854 finalmente uscì.
“Morì nel 1901” scrive Bruna Bertolo nell’accurata biografia di Enrichetta Caracciolo in Donne del Risorgimento. Le eroine invisibili dell’Unità d’Italia. Dunque, ancora lunghi anni durante i quali traslocò in diverse abitazioni, fino a quando incontrò un patriota di origine tedesca, Giovanni Greuther, con il quale visse un lungo periodo di serenità.
Nel 1866, in occasione della terza guerra d’indipendenza, pubblicò il Proclama alla Donna Italiana, in cui esortava le donne a sostenere la causa nazionale, e fece parte di associazioni come il Comitato femminile napoletano, di sostegno al disegno di legge di Salvatore Morelli per i diritti femminili.
Sono donne come Enrichetta Caracciolo, le poche visibili e le numerose invisibili, che nell’800 avevano sparso semi che hanno attecchito dando i loro frutti a distanza di decenni. Donne che hanno attraversato una vita scomoda, pagato prezzi gravosi per poter esprimere i loro pensieri, morte spesso in solitudine, dimenticate. Non stupisce affatto che nemmeno al termine della sua vita abbia ricevuto qualche riconoscimento ufficiale per il suo notevole impegno in campo culturale.

Garibaldi aveva espresso l’intenzione di nominarla ispettrice degli educandati di Napoli, ma “non fece in tempo” a firmare il decreto, ci ricorda Bruna Bertolo; De Sanctis le promise un incarico e poi se ne dimenticò. Solo l’arcivescovo Riario Sforza non la scordò mai e gli oggetti e i beni che le aveva sequestrato come punizione per aver voluto lasciare il monastero, fu ben attento a non restituirglieli. Non fu semplice dunque la vita di Enrichetta Caracciolo, anche negli anni in cui non fu più reclusa, tuttavia si srotolò all’insegna di qualcosa che aveva perseguito con ostinazione: la libertà.
(continua)